di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 19 ottobre 2023.
Troppo poche manifestazioni di piazza, dicono in tanti. E troppo poco partecipate. Poche reazioni. Poca identificazione. Poca solidarietà. Troppa apatia, troppo disinteresse, di fronte alla tragedia che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Israele e Palestina. Ma è davvero così?
Guardandomi in giro, parlando con amici e colleghi (molti, con una conoscenza superiore alla media della questione, con studi e viaggi nelle zone coinvolte alle spalle, e magari parenti, amici, conoscenti e sodali da quelle parti), ma anche confrontandomi con i miei studenti in università, ho una sensazione diversa. Quella che gli editorialisti dei giornali e i commentatori televisivi si ostinano a chiamare (equi)distanza, mancanza di partecipazione, colpevolizzandola, è semplicemente una realistica avvedutezza, una triste consapevolezza dell’inanità delle roboanti dichiarazioni di principio.
È la politica politicante, ignorante della storia e superficiale oltre il limite dell’accettabile (il peggio dei discorsi di questi giorni l’ho sentito a Radio Radicale, nelle dirette dal parlamento, oltre che nei proclami degli estremisti e degli oltranzisti di professione), è quella parte di sistema mediatico che di mestiere giudica e commenta (l’altra fa un lavoro preziosissimo di testimonianza, con i rischi relativi, che chi pontifica dal salotto di casa non corre), quella che lancia appelli e chiama a raccolta, che sente il bisogno di schierarsi da una parte sola, sempre senza se e senza ma: una delle frasi più ripetute e più idiote del nostro vocabolario politico, vetusta e al contempo infantile – il processo di civilizzazione è precisamente quella cosa che invece ci ha insegnato a distinguere, a discriminare, a comprendere i se e i ma, e anche i forse e i magari.
Lo sguardo sociologico che cerco di insegnare ai miei studenti è fatto precisamente di questo: della capacità di mettersi da altri punti di vista, leggerli, confrontarli, compararli, e capire le complesse interrelazioni che sguardi diversi costruiscono e restituiscono. La società è questo: non il tifo calcistico che continuiamo a scambiare per politica, e applichiamo alla geopolitica. Il che non significa equidistanza, e nemmeno incapacità di scegliere. Si sceglie – si riconosce il terrorismo dalla guerra, il conflitto tra militari dalla strage di civili: ma consapevoli della vastità della tragedia, della sua incommensurabilità, che merita molto di più dello schieramento di principio, dell’apposizione di una bandierina.
Da qui una distanza abissale, tra chi si sente in dovere di stare dalla parte di quelli che ha deciso essere i suoi buoni (che si tratti di Israele o dei palestinesi), e che non può che passare il tempo a condannare chi sta da qualche altra parte o da nessuna.
Tra chi discetta di malriposte certezze (assai poco solide, ma che pretende di imporre) e chi si lascia interrogare dal dubbio, dalla complessità, e soprattutto dal dolore, subìto o inflitto.
Tra chi va in piazza in nome di una bandiera, e chi rifiuta proprio questa logica, cercando di capire ragioni, sragioni e torti degli uni e degli altri: perché solo da una operazione verità di questo genere potrà emergere una soluzione positiva, in un futuro che non è vicino, ma che proprio l’ignavia e l’inazione pluridecennale di chi oggi si affretta a schierarsi ha preparato.
Tra chi sente l’impellente bisogno di schierarsi, e chi invece distingue tra oppressori e vittime incolpevoli, tra assassini e innocenti, e sta dalla parte degli incolpevoli e degli innocenti, ovunque siano. E, magari, cerca di dare una mano a superare la logica per cui le cose debbano andare avanti così, inesorabilmente.
Noi, oggi, qui, in Europa, meno coinvolti dal peso indescrivibile e innominabile del conflitto, cui partecipiamo solo per interposta persona, abbiamo il dovere proprio di questo: di quello che le parti in causa non sanno o non possono o non riescono o non vogliono fare. Preparare il terreno per una soluzione futura: che non potrà che tener conto di ragioni e percezioni diverse, di una storia di ingiustizie e violenze sedimentata nel tempo, diventata strutturale e istituzionale, tramandata di generazione in generazione. O quello in corso, in Israele e a Gaza, non sarà nient’altro che un ennesimo massacro, che ne preparerà un altro ancora, ancora più catastrofico. E via così, perpetuando la tragedia. Ma sollevati dall’esserci schierati. Come se fosse servito a qualcosa.