di Alessandro Bruni.
Dobbiamo convenire che non esistono più culture stabili, ma che tutte sono ormai in un cammino tumultuoso sul quale la velocità della globalizzazione gioca un ruolo importante, non solo per il fluire degli eventi, ma soprattutto per l'inadeguatezza delle culture meno tecnologiche a seguire quelle più avanzate. Il queste condizioni il gap culturale e tecnologico diviene via via maggiore generando il rischio della formazione di una oligarchia culturale tecnologica che non tenga conto dell'umanità che rimane indietro e che necessita di tempi più lunghi per adeguarsi, per integrarsi, per essere considerata nel nuovo “noi” che si va configurando.
La cultura è definita, in modo peraltro non esaustivo, l'insieme delle credenze e pratiche che identificano uno specifico gruppo sociale e lo distinguono dagli altri. Indubbiamente Occidente e Oriente sono portatori di culture differenti. La cultura di un gruppo sociale ne determina il comportamento collettivo e individuale formando l'identità che influenza i pensieri, i sentimenti, il modo di vestire, le abitudini alimentari, il linguaggio, la selezione dei valori e di principi morali, il modo di interagire con gli altri e di interpretare il contesto sociale.
La ricerca transculturale ha individuato una differenza generale tra queste culture a partire dal contrasto tra collettivismo orientale e individualismo occidentale. Sorprendentemente significativa del peso della cultura nella formazione individuale e collettiva è stata la constatazione che i bambini indiani induisti e quelli americani cristiani spiegano certe azioni in modo analogo, ma dall'età di quindici anni forniscono spiegazioni differenti. Gli americani diventano più inclini a considerare le persone responsabili delle loro azioni, mentre gli indiani hanno maggiore senso di appartenenza sociale. La spiegazione sta nel fatto che nell'uomo esiste una tendenza sistematica al conformismo di gruppo che però si manifesta con maggior peso nelle popolazioni asiatiche come fatto evolutivo di quella cultura.
In questo ambito un passo interessante è la valutazione dell'aggressività tra popoli occidentali e orientali. Come è noto l'aggressività è innescata dal contesto sociale e la cultura gioca una parte rilevante nella sua modalità di espressione. In antropologia vi sono esempi di popoli con un alto indice di aggressività e popoli con un basso indice di aggressività. In questi ultimi prevalgono le modalità cooperative e sono limitati i comportamenti legati al successo individuale. Per lo più le società occidentali hanno alto indice di individualità, pertanto sono anche più aggressive. In alcune culture la violenza è socialmente incoraggiata come nella sottocultura della violenza del Sud degli USA, dove è addirittura trasmessa come lascito familiare, o come nella cultura d'onore che approva la violenza maschile frequente nelle famiglie latine e latino-americane (machismo), collegata sia ad atti di aiuto che di difesa familiare. Situazione presente anche nei paesi arabi ed indicata con il termine izzat.
Al di là della collocazione geografica, il collettivismo è tipico delle società tradizionali e agrarie basate su legami familiari allargati, mentre l'individualismo è caratteristico delle società industrializzate ove è presente un'impronta laica basata sulla famiglia ristretta. Nel confronto della dimensione individualismo-collettivismo, l'impatto della religione e dell'ideologia politica è stato trascurato nello studio transculturale. Il legame ideologico religioso ha una forte importanza sia nella cultura occidentale che in quella orientale, tenuto conto che la religione è per definizione un insieme di credenze sistematicamente correlate che ha come funzione primaria la spiegazione dell'esistenza.
Nell'impronta culturale protestante è prevalente il modello del Sé indipendente rispetto a quello di cultura cattolica. I popoli ad impronta islamica si basano sul Sé interdipendente, ma questi caratteri non sono così ben definiti come quelli dei popoli ad impronta politeista dell'estremo Oriente. Lo scorrere di queste caratteristiche nel confronto tra cristiani e islamici rende evidente non solo le differenze, ma soprattutto l'inconciliabilità dei determinanti su cui si basano le due culture. Infatti la distintività del Sé ha un significato diverso nelle due culture: in quelle individualistiche occidentali il Sé isolato e circoscritto acquisisce significato dalla separatezza, mentre nelle altre collettivistiche il Sé relazionale acquisisce significato dal rapporto con gli altri. Un punto di partenza completamente differente.
Comprendere a fondo queste differenze permette di comprendere e prevedere anche le azioni di terrorismo che gettano nella incomprensione l'Occidente poiché non realizza la quota collettiva propria del fanatismo. Per la persona islamica, e è corrente nelle cronache, è più facile comprendere il sacrificio umano personale ai fini di uno scopo ideologico-religioso collettivo, mentre questo comportamento è assai meno presente nelle persone che fanno parte di società individualistiche. È fatto storico che i kamikaze giapponesi erano tutti volontari e che non mancarono mai piloti suicidi, mentre in Europa era impossibile trovare un numero di piloti disposti a simili azioni. Parimenti si potrebbe ragionare sull'alto numero di persone disposte a farsi esplodere nel terrorismo islamico fondamentalista, mentre nel mondo occidentale il loro numero è estremamente ridotto e riferibile a persone con forti tensioni individuali patologiche che opera per fini assolutamente personali.
Se da un lato è necessario tenere conto di queste caratteristiche psico-sociali dei popoli, non meno importanti sono le differenti impronte culturali dell'insieme delle norme religioso-comportamentali. Entra in gioco quel processo formativo chiamato acculturazione che oggi trova motivo di conflitto nell'intenso e veloce processo migratorio che è in atto nel mondo contemporaneo. Il migrante sul piano psico-sociale deve affrontare il confronto tra la propria cultura e quella del paese ospitante e ha di fronte quattro possibilità: l'integrazione, ovvero il mantenimento della propria cultura d'origine, ma anche la relazione con la cultura dominante; l'assimilazione, ovvero la rinuncia alla propria cultura d'origine e accettazione della cultura dominante; la separazione, ovvero il mantenimento della propria cultura d'origine e l'isolamento dalla cultura dominante; la marginalizzazione, ovvero la rinuncia alla propria cultura d'origine e il fallimento nel relazionarsi in modo appropriato con la cultura dominante.
Nel mondo contemporaneo queste scelte sono praticate sia sul piano individuale che sul piano collettivo da parte dei migranti. Il problema nasce dal fatto che i processi di acculturazione richiedono un notevole tempo per avvenire e la società moderna non permette né agli individui, né ai popoli di compiere questo processo in tempi socialmente fisiologici. Di qui lo scontro in nome della difesa della propria cultura per non farsi da un lato invadere culturalmente dai musulmani e dall'altro di non farsi degenerare con conseguente perdita di identità dalla aggressiva cultura occidentale di impronta cristiana.
La domanda da porsi è la seguente: tenuto conto della rapidità delle trasformazioni del tempo contemporaneo, l'integrazione può essere una buona soluzione sia per un singolo immigrato che per l'insieme degli individui del gruppo degli immigrati? La risposta è complessa sul piano pratico e per nulla facile poiché significa operare per un incontro di culture in un contesto in continua evoluzione che deve anche tollerare e porre a misura numerose derive comportamentali da una parte e dall'altra che sfociano in eccessi che non aiutano la convivenza. Sul piano teorico culturale le cose sono apparentemente più semplici, sempre che non sussistano pregiudizi ideologici.