di Barbara Stefanelli. Pubblicato in Linkiesta del 14 novembre 2023
Mi sono domandata che cosa avrei fatto se fosse stata mia figlia – che ha l’età di Nika, Sarina, Asra, pochi anni meno della ventiduenne Mahsa – a chiedermi di poter andare allo scoperto, a esporsi in prima linea. O a non chiedermelo affatto. Perché tante di queste teenager hanno preso e sono uscite, senza attendere un’autorizzazione o una benedizione, per mettere i corpi di traverso al passato, ormai sintonizzate sulle proprie esistenze future, da rifondare nella libertà, risolute a conquistarsi più spazio, paesaggi sgombri da editti e pregiudizi, dove cercarsi e nel tempo trovarsi. Come se, in un Paese governato da un drappello di anziani autocrati, non avessero comunque nulla da perdere. Come se, quando il mondo brucia e diventa oscuro, la ribellione fosse l’unica vita bella possibile, l’unica accettabile e necessaria.
Mi sono vista riflessa nello specchio delle madri. Che le hanno attese a casa, le hanno medicate e consolate e difese, le hanno anche incoraggiate, ammirandone la capacità di reagire a quell’esortazione antica che abbiamo ricacciato sempre dentro: chiediti che cosa faresti se non avessi paura. Ho cercato di lasciar risuonare il silenzio e l’angoscia di quante sono state convocate da una telefonata o poche righe, dopo giornate nel vuoto di ogni notizia, e si sono presentate ai cancelli degli obitori a raccogliere le spoglie delle loro bambine, bambine per sempre. Torturate, abusate, ora da ricomporre nella memoria.
Le ho osservate afferrare il testimone della sfida, trasformare i compleanni in riti di battaglia su tombe coperte di petali. Le ho immaginate riaccendersi, allineare il respiro al ricordo, affinché nella Repubblica islamica d’Iran resti tracciata una linea, visibile a tutti: ci sarà, dovrà esserci, un prima e un dopo Mahsa, prima e dopo il movimento delle donne che hanno calpestato i confini della Città e le sue leggi, così come la Città – che sia Teheran, Qom, Zahedan o Mashhad – è stata pensata e presidiata dal 1979.
Nella scia di Antigone e di una tragedia che è universale, le iraniane hanno mostrato che si può rischiare tutto – «finché non reggerò più, lì mi fermerò» – per rispondere soltanto a sé stesse, piene della propria alterità davanti ai sovrani mentre tutt’intorno scricchiola l’architettura delle sottomissioni. Si sono conquistate, da sole, la libertà di essere libere. È da questo che non potranno tornare indietro. Che non potremo tornare indietro.
«Andiamo avanti, ma senza dimenticare, #mahsaamini.» Diceva così un graffito lungo un viale di Teheran, l’aveva descritto al «New York Times Magazine» una delle ragazze intervistate all’interno di uno speciale intitolato Dreaming of a New Iran. Mi aveva colpito per la saggezza, poche parole che rivelano uno stato d’animo collettivo, ma mi aveva anche fatto temere che quel «sogno di un nuovo Iran» fosse stato messo in standby, intrappolato nel circuito chiuso di entusiasmo e disillusione.
Se non è stato facile per il regime circoscrivere e fermare un movimento che non ha leader riconosciuti, nel «dopo Mahsa» non sarà facile transennare idealmente il terreno «preso» dai manifestanti o lasciar maturare l’avvicinamento tra regioni lontane raccolto nel grido che dichiarava l’esistenza di un solo Iran, «da Zahedan a Teheran». L’interrogativo è che cosa succederà – o non succederà – nel Paese del grande ayatollah Ali Khamenei, ormai ottantaquattrenne e con eredi incerti; dei Pasdaran, i guardiani della Rivoluzione che rappresentano un enorme potere parallelo, militare ed economico; delle milizie, che sono state il braccio feroce della repressione e adesso vogliono contare di più.
Una risposta alla paura, paura che il regime possa posticipare ancora e ancora la sua fine, è arrivata a inizio ottobre del 2023 da Narges Mohammadi, cinquantunenne, condannata tredici volte al carcere per un totale di trentun anni + 154 frustate, madre di due gemelli adolescenti, Ali e Kiana, che non vede dal 2015. «Il Nobel per la pace accelererà il mio passo, mi renderà ancora più determinata, speranzosa, entusiasta» ha commentato – dalla cella numero 4 della prigione di Evin – all’annuncio della vittoria del premio, arrivata vent’anni esatti dopo il riconoscimento a Shirin Ebadi. Narges, fiore e leonessa, fedele alla sua filosofia della resilienza: più ci rinchiudono, più diventiamo forti.
Mi sono chiesta, infine, che cosa avrei fatto io. Non mia figlia in mezzo alle ventenni di Teheran; non nel riverbero delle madri iraniane. Quanto sarei e saremmo capaci, oggi, di batterci per la libertà, la nostra e quella degli altri, quella delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi che pensiamo già in salvo, protetti da un’eredità considerata inscalfibile di diritti e privilegi?
Dei racconti di Liliana Segre deportata verso Auschwitz, mi sono sempre rimasti impressi gli ultimi giorni a Milano. Lei che, ragazzina, pedalava spesso davanti a San Vittore per andare a scuola o a trovare le amiche. Lei che, «senza una ragione se non quella di essere ebrea», si ritrova improvvisamente dentro quel carcere. E dal carcere alla Stazione Centrale, binario 21. Ogni tappa scortata dall’inerzia di conoscenti e passanti, che non sapevano e non volevano sapere. Nessuno che mettesse i propri corpi di traverso, sulle rotaie del tram o del treno; nessuno che affollasse gli incroci costringendo quei convogli della vergogna a fermarsi per far scendere i prigionieri, chiedendo loro subito perdono. Non è vero che era impossibile, non è vero che è impossibile.
L’indifferenza aumenta il coefficiente di morte, i regimi ci contano. Contano sul nostro sentirci presto estranei. Per questo possiamo imparare ad amare più forte, per questo dobbiamo ancora combattere.