di Sergio Foschi. Pubblicato in Cdscultura del 28 novembre 2023.
Secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), un programma di ricerca sui conflitti, realizzato dall’Università svedese di Uppsala, nel mondo si conta che siano in atto 170 conflitti in grande parte civili o con la partecipazione di stati stranieri, spesso in guerre su procura ossia su mandato di potenze interessate.
I conflitti peggiori sono spesso quelli di cui si parla di meno, le cosiddette guerre dimenticate in Yemen, Siria, Afghanistan, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, ecc. dove si scontrano per interessi di carattere economico, ma non solo, etnie diverse armate dalle potenze internazionali.
Non ci sono più, come nella prima metà del secolo scorso, i conflitti fra le nazioni, se si esclude quello in corso fra Repubblica russa e Ucraina, con milioni di morti, distruzioni mostruose, olocausti o quelli coloniali che si sono trascinati nella seconda metà del secolo, anche dopo l’uscita di scena ufficiale delle potenze coloniali, con strascichi spesso interminabili e dolorosi come il conflitto in atto fra israeliani e palestinesi.
Il numero dei morti, dei feriti, degli invalidi permanenti è in calo, mentre ormai sono le popolazioni civili a subire i danni di carattere fisico, morale e sociale che ogni conflitto porta con se con un numero di decessi che supera le 50.000 unità ogni anno a causa di azioni sostanzialmente terroristiche portate avanti dalle diverse parti belligeranti che tengono in ostaggio le popolazioni coinvolte, che si impoveriscono sempre di più.
L’industria delle armi produce profitti in continua crescita (circa 500.000.000.000 di dollari all’anno, pari all’intero PIL del Belgio) con la conseguente necessità di svuotare i magazzini e pertanto le guerre diventano un efficace strumento di sviluppo del mercato per le potenze, tra cui l’Italia, produttrici di armi.
Nonostante i richiami continui delle organizzazioni mondiali e delle confessioni religiose e gli appelli delle associazioni pacifiste di ogni continente a favore della Pace i conflitti rimangono tali perché non si eliminano le cause che li hanno procurati e gli interessi molteplici che li mantengono attivi.
Occorre intervenire sulle cause che determinano le situazione conflittuali spesso provocate da condizioni di profonda ingiustizia, da interessi non giustificati, da pretese non ammissibili poiché le cause sono diverse, mentre il combustibile che li alimenta è sempre lo stesso: la fornitura di armi, l’odio ancestrale fra le etnie alimentato anche dall’esterno e gli interessi economici spesso nascosti a favore di terzi.
Oltre a intervenire sulle cause dei conflitti occorre volerla concretamente la Pace, superando l’odio e la disperazione attraverso il perdono e qui occorre ricordare alcune esperienze “non violente” che hanno permesso l’uscita da conflitti anche spaventosi, senza sostanziale spargimento di sangue.
Si fa riferimento alla pace raggiunta in Zaire, dopo anni di sterminio dei Tutsi da parte degli Hutu e al ruolo svolto dalla commissione “Verità e Riconciliazione”, voluta dal presidente Mandela in Sudafrica, a metà degli anni ’90 dopo la fine dell’apartheid che ha consentito al paese di uscire dalla tragica esperienza senza vendette e spargimento di sangue, attraverso il protagonismo di un vescovo anglicano, Monsignor Desmond Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984.
Le 195 nazioni nel mondo possono fermare i conflitti e ogni Paese ha le forze (partiti politici, sindacati dei lavoratori, autorità religiose, associazioni pacifiste, ecc.) in grado di costringere i governi a coalizzarsi per sostenere l’ONU, smettendo di fabbricare armi e aiutando le parti in conflitto a superare i loro contrasti.
Questo è il ruolo che deve svolgere anche il nostro governo in Europa, perché la Pace si può e pertanto la Pace si deve, perché “con la Pace si guadagna sempre, con la guerra si perde tutto”, come dice Papa Francesco.