di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 24 novembre 2023.
Immaginiamo se, per migliorare la sanità in Italia, abbreviando le liste d’attesa e migliorando la qualità del servizio, l’Italia aprisse un ospedale a Tirana e portasse lì medici, infermieri e pazienti. O se, per offrire un servizio migliore nella pubblica istruzione, decidesse di aprire una scuola primaria a Scutari e un liceo a Durazzo, e lì ci trasferisse un po’ di studenti italiani, e i loro docenti. La considereremmo una conquista, un affare, una svolta storica da portare ad esempio, o non piuttosto una sconfitta, una intollerabile ammissione di incapacità e impotenza?
Vista da questa angolatura, la scelta di aprire dei centri di gestione delle richieste di asilo degli sbarcati a Lampedusa in Albania, si presta già a qualche prima riflessione. Anche perché, se così stanno le cose, solo un grande risparmio economico potrebbe giustificare tale scelta, che resterebbe comunque sorprendente in termini di principio e problematica sul piano giuridico e del rispetto delle normative internazionali. Mentre appare già oggi chiaro che costerà molto di più che non gestire gli stessi numeri in Italia. E per giunta non sarà risolutivo.
Oltre a ciò, dovremmo considerare umiliante il fatto di dover immaginare che gli albanesi siano più bravi e veloci di noi nel gestire le pratiche: secondo le previsioni, 3000 persone al mese, con un turnover annuale di 36mila. Se è possibile farlo in 30 giorni, perché ci mettiamo fino a un anno e mezzo, e soprattutto perché non lo facciamo noi? Assumendo personale e dando lavoro a casa nostra?
La risposta sta nella logica dell’accordo. Che non è quella di migliorare la gestione del fenomeno, ma di mandare un segnale alla pubblica opinione autoctona, e in particolare all’elettorato della maggioranza, e a quello della premier in particolare. Una mossa astuta, dunque, ispirata non dall’obiettivo dell’efficienza e men che meno della giustizia, ma dall’ossessione ideologica di esternalizzare il problema (e dall’avvicinarsi delle elezioni europee), più che l’indicazione di un nuovo paradigma.
I problemi stanno già nel merito dell’accordo. Davvero si gestiranno le pratiche in un mese? E coloro che saranno riconosciuti come richiedenti asilo verranno a quel punto trasferiti in Italia, come la logica lascia pensare? E quelli che non lo sono, saranno davvero rimpatriati (a spese dell’Italia), o non finiranno per proseguire sulla rotta balcanica e tentare di rientrare comunque via terra (o di nuovo via mare, come gli albanesi di qualche decennio fa), ricominciando tutto da capo? E davvero si crede cha la pubblica opinione albanese lascerà passare l’accordo (che non è transitato dal parlamento, come del resto da quello italiano), che non protesterà perché uno dei luoghi coinvolti ospita il 70% del turismo estivo nel paese (e gli albergatori albanesi non hanno una mentalità diversa dai nostri), che non reagirà a un accordo di cui non sono chiari i vantaggi, e che ha un sapore vagamente neocoloniale?
Il problema vero è che, su una questione come quella della gestione dei flussi migratori, di cui le richieste d’asilo sono una delle forme contemporanee, e per giunta che riguarda il controllo dei confini e in ultima istanza la sovranità dello stato, la decisione può solo restare in capo allo stato medesimo, e ogni tentazione di esternalizzarla, pure tra loro molto diverse (come tentato anche dal Regno Unito con il Ruanda, come praticato dall’Unione Europea con la Turchia, come già fatto dall’Italia con la Libia, e come vagheggiato oggi da diverse cancellerie) solleva sempre i medesimi problemi, senza offrire peraltro soluzioni di lungo periodo, né risparmi. E questo, perché è sbagliata la logica. Perché, banalmente, il problema va affrontato dall’inizio, non dalla fine.
Se abbiamo oggi così tanti richiedenti asilo che arrivano irregolarmente, è perché abbiamo progressivamente chiuso i canali di ingresso regolare per i migranti economici, che sono precisamente quelli di cui abbiamo bisogno (l’Italia, al ritmo di almeno duecentomila l’anno, solo per compensare le uscite dal mercato del lavoro per pensionamento, e i mancati ingressi causa calo demografico: l’Europa per almeno due milioni). Riaprire i secondi è la prima condizione per vedere diminuire i primi. Ma questo presuppone ammettere – dicendolo apertamente, con una onesta operazione verità rispetto alla pubblica opinione – che di questi abbiamo bisogno, invece di continuare a ripetere il ritornello per cui i richiedenti asilo “quelli veri”, sì, dobbiamo farli entrare, e i migranti economici no: che è quanto si va invece ripetendo anche a proposito dell’accordo con l’Albania.