di Enrico Sbriglia. Pubblicato in L'Opinione del 7 novembre 2023.
È di pochi giorni la notizia della scomparsa della collega Patrizia Incollu, direttrice penitenziaria, dopo un’agonia durata circa due settimane, a seguito di un incidente stradale, a causa del quale è deceduto anche il suo autista, l’assistente capo di polizia penitenziaria Peppino Fois. La violenta collisione con un camion è accaduta sulle strade della Sardegna, che la dirigente continuamente percorreva per ragioni di lavoro.
Si dirà che la sorte è stata matrigna, che ogni giorno accadono sinistri mortali sulle strade italiane e dappertutto nel mondo. Sì, è così, però a non tutti capita di dover svolgere un lavoro che, immaginato dietro una, per quanto scomoda, scrivania o, al massimo, all’interno di un luogo circoscritto (e cosa lo è più di un carcere ?), assumendo decisioni a ritmo impressionante e spesso difficili, governando una complessità costituita da persone detenute e detenenti, si trovino invece a dover trascorrere, quotidianamente, ore e ore in viaggi interminabili, da un luogo all’altro dell’Isola del vento. Come una biglia impazzita all’interno di un flipper, fatto di grate, di acciaio, di telecamere, ricevendo colpi su colpi e affrontando problemi che ne gemmavano degli altri.
È quanto accadeva a Patrizia e quanto succede alla generalità di dirigenti penitenziari, sballottati da un carcere all’altro, dove le realtà che governano, con delle comunità composite e talvolta in conflitto, esigono la loro presenza e impongono continuità amministrativa. Perché nulla prenderà vita se non dopo la loro firma, la loro decisione, il loro intervento, sperando in Iddio che sia giusto, equilibrato, risolutivo. Sì, perché la collega Patrizia Incollu, insieme ai pochi colleghi (due, tre, quanti?) in servizio presso l’amministrazione penitenziaria della Sardegna, era stata incaricata di dirigere più di un istituto penitenziario: l’Isola ne ben conta dieci.
Una vita di lavoro, perciò, trascorsa con l’ossessione del tempo che fugge e del rischio del mancato adempimento, fissando le sfere dell’orologio che non le davano tregua. Perché in ogni istituto c’erano problemi d’affrontare e, soprattutto, da risolvere: c’erano, ci sono, delle persone. Sono anni che i direttori penitenziari, in particolare quelli in servizio nella sacrificata Sardegna, lamentano, assolutamente inascoltati, una carenza rischiosissima dei loro organici, pericolosa per la stessa tenuta del sistema carcerario italiano. Si tratta di una vergogna tutta “nazionale” mentre, fortunatamente, per altre categorie, di cosiddetto “diritto pubblico”, altrettanto non è accaduto (magistrati, prefetti, diplomatici, quadri dirigenziali delle forze di polizia), una carenza così forte da trasformare lo stesso ordinamento penitenziario in una commedia dell’assurdo: Aspettando Godot.
Sulla scrivania di un direttore penitenziario, sappiatelo, si getta di tutto, dal problema delle centrali termiche, che vanno fuori uso sempre nelle giornate festive e prefestive, alle cimici da letto, che torturano i detenuti e talvolta gli stessi operatori penitenziari, e che a titolo di prova ti poggiano schiacciate sul pianale, dopo averle catturate tra le pieghe dei materassi ignifughi, semmai quest’ultimi scaduti, ma non antiparassitari, accompagnate dal burocratico report; insieme ci mettono anche quello che ti segnala la protesta dei detenuti, perché lamentano la qualità del vitto o il mancato funzionamento delle docce in comune; oppure la relazione relativa al problema del nuovo giunto, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia e invisibile ai servizi sanitari, che ha tentato di suicidarsi strozzandosi il collo con le maniche della sua camicia; il poliziotto ti guarda con rassegnazione e ti rappresenta l’ovvio: mica potevamo lasciarlo a petto nudo ?
sintesi di Alessandro Bruni
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