di Giulio Brotti. Pubblicato in La barca e il mare del 16 dicembre 2023.
Dialogo con un amico insegnante, Antonio Forte, docente di Lettere in un Liceo di Bergamo. Il nostro tentativo non è stato quello di aggiungere l’ennesima considerazione di ordine pedagogico-criminologico alle tante parole già spese sull’assassinio di Giulia Cecchettin, ma di indagare su alcuni avvitamenti del discorso pubblico sull'evento.
L’omelia funebre tenuta da monsignor Claudio Cipolla è stata molte volte citata nei giorni successivi. Ha colpito un passaggio cruciale di quell’omelia:
«Forse voi giovani potete osare di più rispetto al passato: avete a disposizione le università e gli studi, avete possibilità di incontri e confronti a livello internazionale, avete più opportunità e benessere rispetto a 50 anni fa. Nella libertà potete amare meglio e di più: questa è la vostra vocazione e questa può e deve diventare la vostra felicità! L’amore non è un generico sentimento buonista, quindi. Non si sottrae alla verità, non sfugge la fatica di conoscere ed educare sé stessi. È empatia che genera solidarietà, accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni, compassione che nell’ascolto dell’altro trova la via per spezzare l’autoreferenzialità e il narcisismo. Se questo è il nostro sogno, se cerchiamo germogli di speranza e di amore avvertiamo tutti la fatica di questo lavoro interiore. La nostra fragilità rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori. Attesa, speranza, amore sono la nostra vita bella».
Il Vescovo ha utilizzato parole-chiave (“libertà”, “vocazione”, “empatia”, “compassione”, “speranza“) e formule significative (“accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni”) secondo una raffinata accezione teologico-ecclesiale che amplifica la portata e gli obbiettivi della nostra lotta.
Ha posto l’accento sul fatto che la realizzazione del sogno d’amore, oggi, può passare solo attraverso un labor impopolare ma propedeutico, un faticoso lavoro interiore di conoscenza ed educazione di sé stessi (e di conseguenza collettivo), per contrastare, nelle relazioni affettive del nostro tempo, la sottrazione colpevole al confronto con la “verità” e ogni istanza autoreferenziale e narcisista (dell’uomo e della donna, quindi), per evitarne le nefande conseguenze.
Questa opera di contrasto orienta il desiderio di trasformare “il dolore in impegno per l’edificazione di una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia) e la salvaguardia dei diritti fondamentali di ciascuno, specie quello alla libera e responsabile definizione del proprio progetto di vita”.
La responsabile e libera definizione, personale e collettiva, diventa l’elemento chiave, secondo Cipolla, per dare un senso a “le università e gli studi, gli incontri e confronti a livello internazionale, l’opportunità e il benessere” che si offrono ai giovani in misura maggiore rispetto al passato.
Libertà e giustizia risultano elementi inscindibili, che impongono di declinare l’amore come attenzione alle sofferenze che ci circondano e speranza di trasformazione redentiva delle lacerazioni storiche. La “pace tra i generi”, in sinergia con una più generale pace tra generazioni e popoli, si conquista apprendendo, per grazia ispirata, la capacità di “far dono di sé stessi” per amore dell’altro.
In sintesi, Giulia Cecchettin non è stata eletta dal Vescovo di Padova a martire della libertà, dell’affrancamento da vincoli affettivi coercitivi, del diritto all’affermazione irrelata del proprio progetto di vita: Giulia, in realtà, è stata vista da Cipolla come vittima sventurata di questa assenza di amore responsabile, aperto alla speranza e alla costruzione condivisa di un futuro, di una sempre meno condivisa istanza di “verità” superiore, che interroghi anche una coscienza laica (come la mia) che non si accontenti dei luoghi comuni agitati in nome e a difesa delle vittime del fenomeno che chiamiamo femminicidio.
Le ragioni profonde del sangue versato non si possono, infatti, cercare solamente nella mai troppo esecrata ossessività amorosa, insicura e claustrofobica, di Filippo Turetta; non può bastare il riflesso condizionato che ha portato fiumi di gente ad esorcizzare nelle parole d’ordine della “libertà” e della “sicurezza” ciò che questo omicidio, insieme ai tanti della galassia “femminicidio”, rivela: la crisi di senso delle relazioni e degli organismi sociali, le contraddizioni del sistema economico e le ricadute esistenziali dell’emancipazione culturale e lavorativa dei soggetti, della crescita personale intesa solo come percorso di affermazione dei propri talenti e della propria originale individualità, nel segno dell’ “autonomia” e del “volersi bene” come dogmi della nostra epoca.
Oggi, l’obiettivo socialmente condiviso sembra non essere quello di costruire legami affettivi, familiari, politici in grado di rendere civile e dignitoso il mondo: pare invece quello di perseguire la soddisfazione autoreferenziale di bisogni multiformi e plurali, fuggendo pastoie relazionali a rischio di tossicità.
La riflessione pubblica ha rinunciato ad interrogarsi su quanto l’affermazione individuale non risolta in una progettualità umana e politica collettiva finisca per essere funzionale alle necessità e alla costituzione materiale di un sistema economico fondato sul produttivismo forsennato e sul darwinismo sociale.
Si fa, allora, fatica ad immaginare condiviso l’invito (implicito) del vescovo a leggere il “femminicidio” come l’esito non tanto di rapporti di potere tra generi, quanto di dinamiche affettive instabili, centrifughe e individualistiche, rispetto alle quali nessuno e nessuna può chiamarsi fuori.
Una riserva radicale sull’interpretazione corrente del fenomeno confermata dal riferimento alla “fragilità” che “rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori”. Quel “corto respiro” del nostro organismo sociale che già il Covid ha, inascoltato, rivelato.
sintesi di Alessandro Bruni
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