di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 23 novembre 2023.
È una tentazione a cui è difficile sottrarsi quella di fare bilanci a cifra tonda. Lo facciamo nel privato, festeggiando i compleanni con lo zero con enfasi particolare. E lo facciamo nel guardare retrospettivamente al nostro passato. A quasi ogni decennio, non a caso, tentiamo di dare un significato preciso, più di quanto sia lecito fare. Per questo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 come il decennio del riflusso, i ’90, forse, come gli anni delle speranze deluse (nasceva la seconda repubblica, ma dagli scandali di Tangentopoli, non dalla speranza di un mondo migliore).
Gli ultimi due decenni, più che dalla politica e dai movimenti sociali, sono caratterizzati dal ruolo dirompente assunto dalle tecnologie nelle nostre vite (quasi tutti gli strumenti, le app e i social che si mangiano gran parte del nostro tempo sono progettati o introdotti nel primo decennio di questo nuovo millennio), ma anche, soprattutto nell’ultimo decennio, dalle grandi crisi: economiche prima (si comincia con quella finanziaria del 2008), poi la presa di coscienza di quella climatica e ambientale, poi quella pandemica che fermerà il mondo temporaneamente e metterà in crisi la nostra idea di sviluppo globale forse definitivamente, infine quelle geopolitiche (che del resto avevano aperto il millennio, con l’abbattimento delle torri gemelle e la scoperta del terrorismo globale), fino all’Ucraina, e al riaprirsi del conflitto israelo-palestinese, e tutte le altre che ci siamo nel frattempo rapidamente scordati. Crisi, che diventano anche di senso, di prospettiva (non abbiamo più risposte alla domanda: dove stiamo andando?): e da cui non ci siamo più ripresi.
È una crisi anche quella demografica, che introduce una variabile ignota in passato, ma che ci cambierà radicalmente: le cui radici risalgono al secolo precedente, ma delle cui conseguenze ci accorgiamo solo adesso. Le nascite sono crollate, e siamo sempre più vecchi, anche se Trento e Bolzano stanno relativamente meglio rispetto alla media nazionale. In più abbiamo ripreso a emigrare, mentre l’immigrazione si è ormai consolidata nel passaggio generazionale, grazie ai nuovi italiani nati qui. Ma di queste immigrazioni abbiamo sempre più paura. Da un lato ci tocca ammetterne l’indispensabilità nel mondo del lavoro, dall’altro non ne vogliamo accettare le implicazioni, anche solo nella loro visibilità, ed erigiamo nuovi muri, mentali prima che fisici (e anche burocratici e legislativi).
Ed è una crisi anche quella della politica, dell’investimento nella casa comune, dei soggetti che pretendevano di guidare la società, dai partiti politici (oggi sempre più simili a consorterie dedite essenzialmente alla propria autoperpetuazione) alla chiesa, che resta una riserva etica importante, ma ha perso anch’essa incisività. Nella società è emerso un individualismo diffuso, che ha portato all’enfasi sui diritti soggettivi anziché su quelli da rivendicare collettivamente. Legati all’identità sessuale o alla bioetica, ma in realtà pervasivi, come mostrano gli egoismi anche generazionali (lo si vede quando si tratta di ripartire le risorse e gli investimenti: ognuno porta acqua al proprio mulino, che si tratti di pensioni o di qualche bonus).
Con l’individualismo si è diffuso il rancore di massa, la rabbia sorda e inconcludente, senza obiettivi, pronta a sfogarsi alla prima occasione, nei confronti del nemico politico e del capro espiatorio di turno (i social, ma anche le gazzarre televisive che vengono chiamate talk show, ne sono una riprova quotidiana, insieme a certa violenza banale, da incidente stradale o da rissa in un locale). E con il rancore si è innescato il ritorno delle tribù, l’insularità tra simili con lo stesso obiettivo (contro qualcuno più che per qualcosa). E si è accentuato un gap generazionale che forse non è mai stato così visibile e incisivo: neanche più il nuovo mondo dei giovani, che si ribella al vecchio, ma mondi separati e spesso non comunicanti – non si contesta neanche più, si vive altrimenti.
Di tutto questo, la politica è oggi uno specchio, forse ulteriormente deformante. E così, chiusi ciascuno nel proprio particolare, abbiamo perso la capacità di investimento sul futuro (complice la caduta del potere d’acquisto, la diminuzione dei salari reali, e anche una diffusa e impalpabile paura – raramente giustificata – che domina la vita cittadina di molti), cui è seguito il pessimismo come orizzonte. Come se si fosse persa la bussola, un orientamento, i punti di riferimento, le solide certezze che fanno sì che si sia capaci anche di grandi slanci, di nuove esplorazioni.
Eppure – seppure all’ombra della crisi ambientale e climatica – il futuro è potenzialmente esaltante. Le possibilità saranno enormi: il problema sarà far crescere di pari passo la capacità di immaginarle e di gestirle. Longevità, scoperte scientifiche, intelligenza artificiale e liberazione potenziale dal lavoro più duro e dai suoi ritmi e luoghi, come ci ha insegnato lo smart working. Ma questo ci riporterà ai problemi sociali di sempre: in primis la lotta alle diseguaglianze, per fare in modo che quello che è già a disposizione di pochi possa essere patrimonio di tutti.