Si pubblicano in sequenza stralci di due articoli scritti con un intervallo di 21 anni per poter fare un confronto tra le speranze del 2002 e le odierne realtà. 21 anni fruttuosi? Forse no. Se oggi alcune situazioni sono cambiate è più dovuto a emergenze sanitarie (in primis covid) che a volontà di rinnovamento verso la centralità del paziente.
Interessante la metafora della ragnatela: in passato al centro della ragnatela c'era il medico e a corona dei cerchi gli operatori e le strutture sanitarie, ciascuna regolata da governance piramidale che imponeva al paziente "suddito" di percorrere i fili per poi convergere sul medico in attesa che esprimeva la sentenza (diagnosi) e la pena (terapia) non penetrando nella conseguenza che ogni paziente percepisce la sua malattia in modo assolutamente soggettivo.
Le cose sono mutate sul piano del costume sanitario con la gestione della malattie oncologiche e con l'osservazione che le cure permettevano al paziente di vivere da quasi malato (o quasi sano, fate voi) per ancora lunghi anni pur sottoposto a continui controlli. La società scopriva che si era formata una categoria di persone che pur malate volevano vivere in modo attivo senza dove aspettare la morte chiusi in una bolla (qui il riferimento è alle lunghe battaglie condotte dalle donne soppoposte a mastectomia). Una bolla metaforicamente ben nota ed espressa da quel numero 048 che sta sulle ricette di ogni malato oncologico a ricordare a se stesso e alla comunità la sua condizione (sì, lo so il numero serve per poter elargire le agevolazioni di spesa sanitarie, ma sul piano sociologico altro non è che una stella gialla sul petto, di triste memoria. Ok, la burocrazia non uccide, ma condiziona assai e induce all'insofferenza che è la porta per l'indifferenza sociale).
Di recente è stato accolto il diritto all'oblio oncologico, così dopo un tot di anni non sei più un canceroso in attesa del decesso (anche se sei costretto sempre a fare attenti controlli) perché la tua probabilità di morte diviene pari a quella di un individuo sano della tua età. Vedremo come questa legge troverà espressione nel vivere: una legge che in definitiva ha corretto una anomalia di costume (discriminazione nell'accesso al lavoro, per esempio) e ha restituito dignità a chi nonostate tutto, pur non totalmente sano (ma oggi chi lo è?) si trova a voler vivere.
Il desiderio di ieri e oggi è ancora che al centro del sistema sanitario sia collocato il paziente che da oggetto diviene soggetto di autonomo giudizio della sua vita avendo il diritto di esprimere il suo volere sulla sua malattia e su come viverla, compreso sul suo avvivcinarsi alla terminalità. In questo sistema organizzativo, più mentale che operativo, ancora più filosofico che pratico, convergono trasportati dai fili della ragnatela i vari livelli personali del malato nella consapevolezza del non voler subire la malattia. I medici dovranno così definire la malattia non solo sulla base delle valutazioni diagnostiche, ma anche sulla base della medicina narrativa personale per ogni paziente (Oddio, molti medici già lo fanno per loro sensibilità etica, rimangono quelli che al sistema si adeguano e che non possono o non vogliono prolungare la visita oltre il quarto d'ora canonico e burocratico).
Così come oggi ogni malattia si presenta con varianti plurime per sintomi e per sindromi, domani ogni malato vivrà con il suo fardello dovuto alla riduzione degli effetti mortali delle malattie e alla loro cronicizzazione, che non è un limbo in attesa dell'inferno, ma un vivere la consapevolezza dell'età involutiva che con varie fasi dell'invecchiamento porterà alla terminalità. Sul piano psicosociologico la diagnosi non sarà più lo stigma che ti renderà con pietismo uno scarto sociale, ma persona che seppur malata vuole vivere la sua esistenza (in genere il tumore lo si addormenta, e lo si mantiene addormentato, per evitare il suo risveglio con una recidiva) sapendo che avrà davanti ancora anni costruttivi: il paziente non è la malattia, ma una persona quasi sana (o oggi legalmente sana) che esprime diritti e dignità e che deve poter continuare a vivere nella sua comunità. Ma per questo dovremo ancora con pazienza aspettare Godot! (Alessandro Bruni)
La centralità del paziente, ma quale centro?
di Licia Mingardi e Daria Aumiller Vandac, pubblicato in Società e salute n.2, pag 206-208, 2002
Da anni, forse da sempre, in questo nostro sistema sanitario si parla di centralità del paziente. E molti passi sono stati fatti, specie negli ultimi tempio, nella ricerca di modalità organizzative che tenessero conto del paziente nella sua individuale specificità; day service, day hospital, assistenza domiciliare integrata, ecc.
Ma è ancora lasciato al paziente, alla sua famiglia o al suo medico di base l'onere di ricercare le varie forme di assistenza sociale e sanitaria, erogate da unità operative diverse, e le modalità di accesso alle prestazioni.
Infatti, l'organizzazione dei servizi, sia pubblici che privati, è tutta incentrata sui professionisti socio-sanitari e la cultura e le categorie professionali sono enfatizzate nel rapporto medico-paziente (ma pervadono anche gli altri operatori del settore) che permettono la personalizzazione della singola prestazione, ed una sua elevata qualità, ma limitano l'integrazione ed il confronto dialettico fra professionisti diversi.
Le strutture organizzative preposte all'erogazione di servizi socio-sanitari sono tutte verticali ed il collegato sistema informatico aziendale segue le stesse logiche confluendo nella lettura piramidale delle informazioni. Le organizzazioni che si dicono “a matrice” esprimono una pluralità di responsabilità apicali e nulla di più.
In questo tipo di struttura non c'è spazio per il paziente, che resta estraneo, alla periferia delle piramidi, numeratore dei dati di efficienza elaborati dagli erogatori.
Molteplici e lodevoli sono stati gli sforzi delle Aziende sanitarie nello studio di variabili organizzative più efficienti e nello sviluppo di progetti centrati sulla qualità, attesa o percepita del “cliente”, progetti che hanno attivato una diffusa sensibilità negli operatori verso questi problemi.
È l'informazione che oggi può assolvere il compito di abbattere le barriere organizzative. È nel sistema informativo che il paziente può essere collocato al centro di una rete, anziché ragnatela, i cui fili attingono dai terminali, ma anche dai punti intermedi delle piramidi aziendali.
Il paziente diventa in tal modo il reale trait d'union fra servizi, competenze, professionalità ed anche ambiti territoriali, diversi. Lo scambio fra professionisti che si prendono in carico uno stesso individuo non è più lasciato alla buona volontà dei singoli o a complicati disegni organizzativi, ma la facile lettura delle reciproche informazioni, portare ad unitarietà in capo al paziente, aumenta l'efficacia diagnostica e terapeutica , facilitando il percorso del paziente.
Nell'era dell'età dell'informatica non può più essere il malato che si reca, spesso per successivi tentativi (disperdendosi e faticosissimi, oltre che ansiogeni), nei vari punti di erogazione delle prestazioni e che percorre distanze per aver accesso ai servizi. Sarà lui direttamente o il suo medico di base o l'assistente sanitario o sociale o i familiari, secondo i casi e le necessità, ad accedere alle informazioni sulla gamma di offerte presenti, in modo tale che i professionisti, gli specialisti o il medico di base potranno prefigurare un percorso diagnostico-terapeutico efficace, senza ripetizioni inutili o sovrapposizioni rischiose.
[…]
Alcune tipologie di pazienti cronici già usufruiscono di percorsi che li tutelano, tenendo controllato il procedere della malattia e , contemporaneamente, la previsione di possibili complicanze statisticamente indotte dalla patologia principale. Nel percorso è prevista una periodicità di terapia e di accertamenti diagnostici, con l'integrazione di diversi specialisti, non sempre attivati da un unico punto.
Si tratta di estendere la metodologia e di dare l'opportunità ai medici di ottenere l'integrazione con altri, sia nella richiesta di prestazioni che nella lettura dei referti.
Aspettando Godot
Editoriale di Maurizio Bonati. Pubblicato in Ricerca e pratica n.4. vol.29 di luglio-agosto 2023. Pensiero scientifico editore.
L’attesa: lo stato d’animo con cui ci si aspetta la realizzazione delle proprie speranze. Si può essere attivi o passivi nella realizzazione, ma quello che caratterizza l’attesa è il tempo. Attendere qualcosa o qualcuno rimanda inevitabilmente al decorrere di un periodo di tempo affinché ciò che aspettiamo si manifesti.
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Aspettando Godot (Dio non-Dio [God God-(n)ot] o muoversi stare fermo [go dot]).
L’attesa e la speranza che determinano la dimensione del tempo che è fatto di esperienze; di vita attiva, emozionale del quotidiano di ciascuno. Attesa e speranza quali aree terapeutiche, ma anche in questo caso se attive e partecipate. Si è sempre più propensi, anche attitudinalmente, a delegare ad altri decisioni e azioni, non assumendosi o sfuggendo alle responsabilità; magari senza esimersi dal commentare e giudicare, anche senza cognizione di causa.
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Il diritto alla salute (lo star bene e meglio) per tutti rimane in cronica attesa nel mondo e in fiduciosa attesa in Italia. Un’attesa scandita dai mesi che intercorrono tra la richiesta e l’effettuazione di una visita; mesi che superano anche l’anno per un esame diagnostico.
Una speranza che le disuguaglianze dei percorsi di cura garantiti ai residenti delle regioni meridionali rispetto ai residenti di quelle settentrionali si riducano, così da evitare ad un cittadino lucano, per esempio, di dover migrare centinaia di chilometri lungo i meridiani per sottoporsi ad un intervento ortopedico. O risparmiare tempo, disagi e spese ad un bambino calabrese (e alla sua famiglia) per andare a Roma, per ricevere cure neuropsichiatriche.
Una migrazione asanitaria interregionale in un panorama in cui 14 delle 20 regioni nel 2022 avevano un bilancio in deficit alla voce “sanità” e gli amministratori sono dovuti ricorrere all’utilizzo di altre voci per chiudere il bilancio, sottraendo-spostando risorse destinate ad altri interventi. Disuguaglianze che il disegno di autonomia regionale presentato in Senato rischia di accentuare ulteriormente, alimentando un mercato sanitario.
Dopo 45 anni il Servizio sanitario nazionale (SSN) necessita di una completa riforma, non basta che sia pubblico e universalistico. Tutti convengono su questi principi, anche gli imprenditori della sanità privata che non garantisce percorsi assistenziali che non siano sufficientemente remunerativi, sebbene essenziali e, comunque, garantiti dal Servizio pubblico.
Il mix privato-pubblico necessita di essere governato (governance) in base ai bisogni e agli esiti degli interventi diagnostici e terapeutici in termini di appropriatezza (clinica ed economica) e anche rispetto alle attese del prestatore e del beneficiario del Servizio. La pandemia ha ulteriormente evidenziato le disuguaglianze aumentando l’attesa per il miglioramento del SSN.
Ma attesa e speranza necessitano anche di fiducia, dote sempre più rara da coltivare quando le cure territoriali (a partire dalla prevenzione) non migliorano, le Case della Comunità sono “specchietti per le allodole”, il PNRR sembra principalmente un Piano per l’edilizia e i presidi tecnologici più che un Programma per la salute (star bene e meglio) dei cittadini tutti (ovunque residenti).
Un’attesa caratterizzata dall’incertezza, anche quella ultima, l’estrema: il rischio di morte accidentale per il caldo è maggiore per gli anziani italiani rispetto ai coetanei europei, così come maggiore sembra essere il rischio per gli ospiti delle residenze sanitarie.
Gli esiti sanitari e sul SSN della pandemia, così come la tragedia occorsa alla “Casa per coniugi” di Milano non possono non far riflettere se bisogna aspettare ancora Godot o è possibile individuare forme partecipate e condivise di un fiducioso muoversi per star meglio e bene tutti?