di Claudio De Fiores e Michele Della Morte. Pubblicato in Il Mulino del 11 dicembre 2023.
La presentazione del ddl di revisione costituzionale recante “Introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia” era un evento atteso. Le riforme rappresentano un punto essenziale dell’agenda di governo, come confermato, nei mesi scorsi, dalle ripetute dichiarazioni del ministro Calderoli, determinato a difendere il suo contestato progetto di autonomia differenziata, e della stessa presidente del Consiglio Meloni che, all’indomani della vittoria elettorale, ha affermato che avviare la revisione della Carta costituzionale, in virtù di un presunto mandato popolare, rappresenta per il governo un dovere.
Per affrontare la crisi dei partiti – che da troppi anni investe gli assetti politici del Paese, impedendone lo sviluppo democratico –, per garantire una maggiore stabilità di governo, per evitare il ripetersi di governi cosiddetti tecnici, per ridurre l’eccessiva frammentazione politica, la soluzione da perseguire avrebbe dovuto essere un’altra: alimentare i canali della partecipazione popolare, rafforzare i luoghi della rappresentanza, ripensare le funzioni nella prospettiva di una rinnovata centralità parlamentare. E questo avrebbe voluto dire: mettere mano al bicameralismo (ormai svuotato e mortificato), ripensare il sistema elettorale in senso proporzionale (unica soluzione in grado di esprimere e rappresentare la plurale articolazione politica della nazione), prevedere in Costituzione strumenti diretti a rafforzare la stabilità di governo (come, ad esempio, la sfiducia costruttiva).
Nulla di tutto questo emerge dal disegno di legge sul premierato, che, nella migliore tradizione della destra italiana, si prefigge di assecondare le virtù del comando e perpetuare l’ossessione del capo. Un capo indiscutibile, la cui dilatazione dei poteri sarà tale da far assumere al suo governo una posizione di assoluta preminenza all’interno del sistema, a scapito del Parlamento e degli stessi organi di garanzia. Non è casuale che il sistema pensato, l’elezione diretta del premier, non abbia riscontri sul piano del diritto comparato, a parte la rovinosa esperienza israeliana nel periodo 1996-2001.
I motivi del suo fallimento, per chiunque si occupi di politica e di analisi istituzionale, sono facilmente comprensibili: si tratta di un modello inutilmente rigido, destinato ad avvitarsi su se stesso, perché fondato sulla neutralizzazione artificiosa delle fibrillazioni politiche del sistema e sull’ingenua pretesa di scongiurare, attraverso confusi congegni normativi, le crisi di governo. Ci si riferisce al bizzarro escamotage contenuto nella riforma, in base al quale anche a fronte di un vistoso fallimento del capo plebiscitato, delle sue capacità di governo e delle sue politiche, queste continuerebbero provvidenzialmente a vivere, grazie alla contestuale assunzione dei poteri di governo nelle mani di “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto” e al quale spetta ora il compito di operare in sua vece “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”.
La disposizione anti-ribaltone rappresenta il fiore all’occhiello del disegno di revisione: una norma giuridicamente sgangherata che, nel tentativo di blindare la durata degli esecutivi e, attraverso essi, l’intera legislatura, finirebbe per blindare anche il vincolo di ubbidienza dei parlamentari di maggioranza al loro capo: non solo a quello eletto, ma eventualmente anche al suo successore. Con buona pace dell’art. 67 della Costituzione, della rappresentanza della nazione e del divieto di mandato imperativo.
Premio di maggioranza, elezione diretta, riduzione delle prerogative del capo dello Stato, spropositati poteri in capo al governo e a scapito del Parlamento. Queste le coordinate politiche e culturali della riforma costituzionale che, proprio per questo, non s’ha da fare. La sua entrata in vigore determinerebbe lo stravolgimento definitivo della nostra democrazia parlamentare, già ferita dallo strapotere esercitato dai governi in questi anni. Ogni riferimento al reiterato abuso dei decreti-legge (recentemente stigmatizzato dal Presidente della Repubblica), alle modalità di approvazione della legge di bilancio, alla compressione della discussione parlamentare, all’utilizzo sistematico della questione di fiducia non è casuale, ma voluto.
sintesi di Alessandro Bruni
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