recensione di Paolo Bartolini. Filosofo, tra psicologie del profondo e spiritualità laica. Pubblicato in Sinistrainrete del 23 novembre 2023.
È da poco uscito, per l’editore Vita e Pensiero, un ottimo volume scritto a quattro mani: L’epoca dell’intranquillità. Lettera alle nuove generazioni di Miguel Benasayag e Teodoro Cohen. Il filosofo e psicoanalista di origine argentina, insieme a un giovane amico impegnato nel collettivo Malgré Tout, ci consegnano un’agile riflessione sull’impegno culturale e politico nell’epoca oscura che stiamo vivendo.
Forse più che una lettera alle nuove generazioni, siamo di fronte a un invito pubblico affinché gli adulti gettino dei ponti per riaprire il dialogo con i giovani, coinvolgendoli e lasciandosi coinvolgere in un processo comunicativo bidirezionale. L’apparato filosofico sotteso alle argomentazioni degli autori è, difatti, tanto affascinante quanto lontano dalle conoscenze e dal linguaggio comune dei ragazzi. In altre parole, questo testo è davvero importante per chi, come lo scrivente, ha più di quarant’anni e frequenta da tempo i tragitti del pensiero critico.
Difficile credere, invece, che giovani e giovanissimi, presi nella rete di una pervasiva spettacolarizzazione e virtualizzazione dell’esistenza, siano dotati dei mezzi per comprendere a pieno tutte le sfumature presenti in queste pagine. Il tentativo dei nostri autori è comunque sincero e potrebbe agganciare le istanze critiche che si muovono, principalmente, nel circolo dei giovani attivisti ecologisti, interessati ai diritti di genere e alla difesa del territorio.
Più difficile – e questo è il compito a venire che ci assegna un presente caotico e in continua fibrillazione – saldare in maniera efficace e consapevole le lotte per la giustizia sociale e del lavoro con altre battaglie che hanno risvegliato maggiormente la sensibilità delle nuove generazioni.1
Questa mia osservazione non va scambiata per una critica superficiale al libro, come se rimproverassi agli autori una scarsa coscienza anticapitalista. Del resto Benasayag e Cohen sottolineano, con buone ragioni, che lottare contro “il capitalismo” è invero un proclama astratto e generico. Non esiste un’entità siffatta a livello “globale”, poiché essa si riproduce nelle situazioni concrete della vita quotidiana, e lì inscena il suo dominio.
Azioni efficaci, che sappiano aprire un varco oltre il neoliberismo e il capitalismo, possono darsi solo nei contesti che abitiamo e a cui prendiamo parte come vettori. Abbandonare il sogno illusorio della conquista del Palazzo di Inverno e aprirci alla molteplicità di conflitti generativi è il doppio suggerimento che gli autori offrono ai loro lettori e lettrici.
Direttamente collegata a questo troviamo la centralità più volte ribadita della resistenza creativa, quella che non rifiuta a priori lo scontro, ma punta innanzitutto alla creazione di alternative concrete alle logiche del sistema. A monte, per poter rafforzare spinozianamente la potenza di agire dei singoli e dei gruppi, troviamo dunque l’urgenza – per i giovani e non solo – di sottrarsi alla normatività di una società di mercato che, mentre diffonde precarietà e distruzione, sembra ricordare a ogni ragazza/o che non è mai “come dovrebbe”.
Sentirsi sbagliati, non performanti, troppo fragili per un mondo in perenne competizione, è un effetto tossico che paralizza il cambiamento e soffoca il desiderio nelle persone: desiderio che, diversamente dalla retorica imperante, non è qualcosa di “individuale”, perché risulta irriducibile alla volontà e alle pretese di corto respiro di un ego narcisizzato. Farsi attraversare dal desiderio, lasciarsi rapire da esso, è importante affinché ciascuno di noi si liberi dall’identificazione tra persona e individuo, dove la prima è un nodo di relazioni e legami, il secondo solo un’astrazione funzionale al mercato delle idee, delle merci e degli stili di vita appropriativi.
Benasayag e il suo compagno di scrittura rimarcano più volte il fatto che la modernità e i suoi obiettivi di controllo totale e Progresso sono al capolinea. L’era complessa è irriducibile al pensiero lineare e pone un freno drastico alla pretesa – segnata da inquietanti fantasmi di purezza – di ridurre l’umano a qualcosa di razionale, trasparente e pienamente governabile. La negatività non può essere eliminata, piuttosto va conosciuta e integrata nel tessuto di una vita che fiorisce nonostante le spine.
Un altro tema molto presente nel libro è quello dell’ibridazione tra vita organica e artefatti tecnologici (soprattutto digitali). Fondamentale, come già ricordato in altri volumi recenti del filosofo argentino di stanza a Parigi, è pensare un’ibridazione che non cancelli la differenza tra i poli dell’esperienza: gli umani e la vita degli ecosistemi, da una parte, e le macchine (inclusa la cosiddetta “intelligenza” artificiale), dall’altra. Il pericolo più grande, infatti, è che la ricchezza molteplice degli organismi e della cultura venga appiattita in modo unidimensionale sulla sfera del mero funzionamento, dunque su criteri di efficienza, utilità e calcolo strumentale.
L’intranquillità di cui parlano Benasayag e Cohen non è solo inquietudine per un passaggio epocale denso di minacce, ma è quella tendenza propria del vivente ad agire nelle situazioni date, assumendo la responsabilità di “azioni ristrette” ma non per questo prive di ricadute ed effetti moltiplicatori. Invece di cadere negli opposti del panico da apocalisse imminente e della depressione mista a senso di impotenza, gli autori provocano chi legge a mettersi in discussione, a non farsi catturare dalla “dolce certezza del peggio”.
Pensiamo ad esempio alla situazione geopolitica odierna, alle guerre che incendiano il pianeta. I rapporti di forza sono ancora molto sbilanciati e non si intravedono, nel breve periodo, trasformazioni sensate che ci permettano di uscire dalla turbolenza del caos legato al declino dell’egemonia occidentale nello scacchiere internazionale. Allora dovremmo condannarci alle passioni tristi della sfiducia, della disperazione, dell’impotenza insuperabile? E perché mai?
Mentre l’orrore ci avvolge e la sensazione crescente è quella di avere a che fare, alle nostre latitudini, con una democrazia esausta, travolta dalla propaganda e dall’ipocrisia dei gruppi dirigenti, dobbiamo domandarci seriamente se reazioni scomposte o depressive non siano proprio quelle che il potere desidera per prosciugare il fiume carsico delle pratiche e dei discorsi ribelli che esistono ovunque in giro per il mondo.
Forse questo bel libro, che consiglio di cuore a chi non smette di volere una vita all’altezza dei propri sogni, mostra un solo limite degno di nota: Benasayag e Cohen non trovano la quadra relativamente al rapporto tra potenza dei movimenti e rappresentanza istituzionale. Quest’ultima viene perlopiù pensata come triste gestione burocratica, al massimo come luogo dove trasformare in leggi le sperimentazioni creative di chi resiste nei territori tramite laboratori sociali e politici, nuove forme di agricoltura, reti dell’economia solidale ecc.
Sappiamo però, pur concordando con il fatto che l’innovazione politica decisiva proviene sempre dall’attivismo diffuso e non certo dai capi di partito, che la giustizia ecoclimatica, di genere e sociale, per non parlare della pace, necessitano di decisioni e azioni non solo locali. Il disastro ambientale, il precariato di massa, la violenza sulle donne e sulle minoranze, l’appartenenza a nuove alleanze transnazionali più convenienti per i popoli e meno per le élite finanziarie e militari, richiedono una sinergia strutturale tra movimenti di lotta (e di resistenza creativa) e istituzioni, tra base e rappresentanti. In altri termini, è giunto il tempo di dedicarci – nelle situazioni reali e non solo nei simposi dei pochi intellettuali che hanno capito il problema – a una riconfigurazione meditata della democrazia nelle sue tre fondamentali espressioni: diretta, parlamentare/rappresentativa, partecipata.
Dobbiamo interrogarci, allora, sul rapporto conflittuale e generativo da istituire tra i partiti e la galassia dei movimenti, affinché la lotta al neoliberismo, alla guerra, alle privatizzazioni selvagge e all’autoritarismo 2.0 possa tradursi in azioni multilivello, tra loro intrecciate e complici, finalizzate a decolonizzare non solo l’immaginario dominante, ma anche il modo di fare politica nelle stanze dei bottoni e ovunque si prendano decisioni sul “bene comune”. Tutto questo, beninteso, disattivando progressivamente la partecipazione alle polarizzazioni create ad arte sui social e sui mass media.
Sì, perché i dispositivi del controllo panottico, ormai interiorizzati nella forma di una allegra e sconsiderata esposizione della propria esistenza sugli schermi degli smartphone e dei nostri personal computer, vanno lentamente destituiti della loro presa totalizzante, senza per questo rinunciare a una nuova fase istituente (si leggano i recenti lavori del filosofo Roberto Esposito per Einaudi) oggi ineludibile se vogliamo che la lotta contro le ingiustizie dia frutti e non consegni popolazioni inermi al populismo basso e alto dei finti sovranismi e delle élite tecnocratiche.
- 1 Un esempio eclatante di problematica complessa che richiede un rinnovato sguardo “di classe” lo troviamo nelle recenti considerazioni dell’Oxfam su cambiamenti climatici e diseguaglianze. Se si comprendesse a pieno quanto scritto nel rapporto dell’organizzazione non-profit, eviteremmo tanto la negazione surreale dei cambiamenti climatici in atto, quanto il green washing e le prese in giro “ambientaliste” dei salotti borghesi che chiedono sacrifici a miliardi di persone senza intaccare minimamente i patrimoni dei ricchi e dei grandi inquinatori.