di Giuseppe Maiolo. Psicoanalista del costume e delle età della vita. Pubblicato nel blog dell'autore il 20 dicembre 2023.
C’era una volta lo sguardo, ovvero quell’incontrarsi con gli occhi che parlavano e dicevano un fiume di cose piene di emozioni, a volte indicibili o impensabili.
C’era una volta, perché lo sguardo oggi sembra altrove, sempre da un’altra parte e lo abbiamo chiamato «phubbing» che è lo sguardo di chi ti ignora perché concentrato sul suo cellulare.
Un tempo si diceva che «bastava uno sguardo», per capirsi e con esso sapevi se andavi bene o male.
Quante madri nel silenzio degli sguardi educavano i figli a far venire fuori le parti migliori o rimproveravano un’esuberanza fuori luogo, perché la parola sguardo proviene dal latino «respicere» e significa rispettare l’altro.
Lo sguardo, così, è attenzione e rispetto.
Ed è lo sguardo inziale che fa crescere. Quello della madre che non guarda semplicemente il figlio, ma lo osserva con attenzione e gli permette di essere osservata. Una reciproca contemplazione guiderà la ricerca di senso e il desiderio di comunicare.
Lo sguardo è di fatto, comunicazione intensa che va oltre le parole, arcaica e istintiva dominata dal linguaggio del corpo che è quello che determina una relazione, la esprime e la arricchisce.
Perché soprattutto gli affetti si nutrono di sguardi più che di parole, intrecciano narrazioni infinite, quasi impossibili con il verbale, ma non lo escludono perché il dialogo è fatto di osservazione e parlato che è quello che serve per favorire quell’inconsapevole empatia che ci destinano i nostri neuroni specchio.
Per la maggior parte delle relazioni, anche quelle professionali, sono gli sguardi che ci fanno andare avanti, ci uniscono o ci separano.
A scuola è il contatto visivo che struttura la relazione allievo-insegnante e viceversa. Sono i segnali che con gli occhi si ricevono e si inviano gli elementi fondamentali, densi di significato e ci permettono di sapere dove siamo nel qui e ora.
Perché gli sguardi sono le parole del cuore e non della ragione, con le quali diciamo le nostre emozioni coscienti o apparentemente estranee, le difficoltà e i dubbi, le vicinanze o le distanze.
Lo sguardo è azione educativa. Anzi, come si è detto, è il primo gesto, quello fondamentale, che non ha parole né azioni specifiche: è fatto di ascolto e di osservazione.
Ognuno di noi fin dall’inizio ha bisogno che gli occhi si aprano alla relazione e si cominci ad apprendere con lo sguardo e dallo sguardo, che sarà l’ultimo ad abbandonarci.
Purtroppo oggi sono sempre meno gli sguardi che ti catturano.
Gli occhi sembrano assenti o distanti, immersi non in altri occhi ma impegnati a scorrere i display retroilluminati e invece spesso a disagio quando si incrociano.
Non per caso appaiono insolenti gli sguardi intensi di ci guarda. E stranamente sono rimasti solo gli animali domestici con i loro grandi occhi fissi nei nostri che ci osservano.
Oppure i bambini, quelli piccoli, che chiedono di essere osservati, per lo meno fino a quando loro stessi, precocemente saranno catturati dalla magia perversa degli smartphone.