di Paolo Bartolini. Filosofo, tra psicologie del profondo e spiritualità laica. Pubblicato in Sinistrainrete del 23 novembre 2023.
La galassia del dissenso, ovvero l’area critica che dovrebbe mettere in discussione le coordinate del neoliberismo giunto anche per noi alla sua fase apertamente autoritaria (altrove, ad esempio in Sud America, il volto machista e violento del capitalismo contemporaneo è ben noto da decenni), vorrei fosse capace di produrre analisi e mobilitazione evitando di cadere nelle polarizzazioni di un dibattito pubblico orientato da precise strategie comunicative. Capita spesso, infatti, che gli eventi dell’attualità fomentino opposizioni sterili che distolgono dall’unica opposizione seria di cui abbiamo urgente bisogno: quella tesa a immaginare e costruire una società post-capitalista, equa, solidale e sostenibile. Purtroppo si continua invece ad alimentare testarde semplificazioni, simmetriche e complementari a quelle dominanti, incapaci di cogliere la complessità del presente e di attrarre a sé una massa critica.
Un esempio eclatante lo troviamo, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin ad opera del suo ex fidanzato – l’ennesimo femminicidio su cui le istituzioni sorvolano come fanno, del resto, anche per le incessanti morti sul lavoro che funestano il nostro Paese con cadenza quasi giornaliera –, nel tentativo dei maestrini della contestazione di dichiarare fittizia la lotta al patriarcato invocata negli ambienti femministi, perché il patriarcato inteso in senso rigoroso sarebbe uscito dal radar delle società occidentali da parecchi anni, sotto la spinta di una fluidificazione imponente dei rapporti di genere e di potere.
Insomma, secondo questa lettura il neoliberismo sarebbe una forma di dominio compiutamente post-patriarcale; contro di esso e contro un certo progressismo liberal bisognerebbe tirar fuori le unghie e dirigere lo sdegno. Ne consegue che le femministe che riempiono le piazze e fanno sentire la loro voce, sbagliano grossolanamente parola d’ordine, risultando in un certo senso funzionali al gioco di maschere del tecno-capitalismo.
L’impressione è che, nel criticare dall’alto in basso le donne e le minoranze che si raccolgono intorno alla parola “patriarcato” individuando in esso il nemico da sconfiggere, non si capiscano due cose, una inerente al fenomeno socioculturale in questione, l’altra all’attivismo politico in quanto tale. Indubbiamente il patriarcato è in grave crisi da circa un secolo. L’ordine simbolico contemporaneo ruota maggiormente intorno al Neutro del denaro che si accumula e alla fungibilità degli umani che, nella società di mercato, si muovono come pedine indifferenti, numeri tra numeri, senza significative distinzioni di sesso e di genere.
Eppure, vorrei far notare, il patriarcato poggia su una configurazione di rapporti asimmetrici e tacite convinzioni, che è di lunga durata. Tali convinzioni sono penetrate nell’inconscio sociale e lì hanno avuto modo di attecchire per secoli. Il progressivo cedimento del patriarcato si accompagna così a feroci colpi di coda. Proprio perché il dominio maschile non è più scontato e condiviso come assoluto e “naturale”, le esplosioni di violenza ne registrano magistralmente l’implacabile venir meno: sono reazioni disperate e incontrollate alla perdita – da parte del maschio cresciuto in una cultura guerresca, forgiata da identità e ruoli monolitici – di quella sicurezza garantita oggi presa di mira da precariato, bieco utilitarismo, competizione nelle professioni, surplus di esposizione mediatica, ridondanza di un immaginario sessuale frustrante.
Dunque, se le femministe (e noi con loro) consideriamo la parola patriarcato ancora significativa è in quanto la transizione a una civiltà di parità-nelle-differenze è ancora di là da venire, e i residui sessisti e maschilisti di una cultura plurimillenaria stentano a tramontare del tutto. Ma veniamo al secondo limite delle critiche che, in questi giorni e in queste ore convulse, taluni rivolgono a coloro che evocano il patriarcato per condensare la propria rabbia e per definire i connotati della violenza contro le donne e contro tutte le soggettività non conformi.
Quello che non vedono, non solo i solerti uomini di destra e sovranisti mancati che eruttano sciocchezze mediante i quotidiani di regime, ma anche una parte del mondo del dissenso – i cosiddetti antisistema – è che in un’epoca di potente crisi della partecipazione politica, se una parola riesce a toccare cuori e pance, favorendo una coalescenza di soggetti diversi uniti da solidarietà e rabbia costruttiva, è poco lungimirante metterla in discussione con ragionamenti astratti che non intercettano alcuna emozione viva. La politica si fa con pari dosaggio di intelligenza ed emotività profonda, tenendo insieme componenti maschili e femminili presenti in ogni essere umano, imparando a mettere in moto processi e conseguenze che derivano dall’impegno concreto dei corpi in azione.
Sarà forse per questo che l’area critica di cui sto parlando, e a cui guardo non di rado con interesse, produce spesso riflessioni stimolanti ma poi non riesce minimamente a organizzare nessuna forma di resistenza creativa, e tanto meno a conquistare nuovi compagni di viaggio fuori dalla cerchia ristretta dei soliti simpatizzanti. Dovremmo, pur con i distinguo che a volte si rendono necessari (per esempio, in totale solidarietà con i movimenti ecologisti, è importante non tacere i dubbi su alcune azioni intraprese dai giovani militanti e sugli effetti controproducenti delle stesse sull’opinione pubblica), adottare una postura esistenziale che è molto femminile e che i maschi esitano a riproporre per motivi culturali più che biologici: osservare, ascoltare, essere disposti a imparare da chi sta realmente costruendo un consenso e un impegno intorno ai nodi decisivi del presente.
Sono le donne e le minoranze che sperimentano sulla loro pelle intimidazioni, aggressioni fisiche e verbali, svalutazioni continue, quelle che hanno tutto il diritto di appropriarsi di parole, simboli e pezzi di immaginario capaci di nutrire la fantasia e l’azione corale. Invece di giudicare e togliere punti-patente ai movimenti che non agiscono secondo il manuale del perfetto ribelle marginale, tentiamo di ripensare da capo il ruolo stesso delle e degli intellettuali. Questi, come si è reso evidente nei tre anni orribili della pandemia/sindemia, della gestione fallimentare della stessa, e delle guerre in Ucraina e nella striscia di Gaza, sono chiamati a produrre un esame di realtà non riduzionistico, incoraggiando tutti coloro che stanno gettando sassi nell’acqua, sperando di allargare i cerchi dei propri effetti, a farlo nello stesso lago, cosicché non vadano perdute energia e passione. Lo specchio d’acqua che abbiamo in comune, anche se spesso non ce ne accorgiamo, include femminismo, ecologismo, lotta per la giustizia sociale e del lavoro, pacifismo e dialogo tra le culture e le religioni.
Un arcipelago di isole collegate dalla medesima corrente, dal sole e dai vènti.
Di questa consapevolezza abbiamo bisogno per andare oltre il patriarcato e il neoliberismo, spezzando la catena di comando di un capitalismo senile che coltiva il sogno irrealizzabile di non morire mai. Guai a frammentare il senso delle lotte, a separarle e decostruirle fino al punto di smarrire la coscienza di ciò che le lega: la ricerca di un mondo liberato, nei limiti del possibili, da sfruttamento, incuria e violenza.