di Claudia Boscolo. Pubblicato in Valigia Blu del 5 dicembre 2023.
Il discorso del papà di Giulia Cecchettin è un dono altamente ‘politico’ alle nostre società disorientate.
Nella Basilica di Santa Giustina a Padova si sono raccolte oltre ottomila persone per il funerale di Giulia Cecchettin, che la famiglia ha voluto pubblico e in luogo che potesse ospitare una grande partecipazione. Il femminicidio di Giulia Cecchettin, pur corrispondendo ai tratti tipici del reato, è caratterizzato al contempo da una dimensione simbolica che lo rende un evento spartiacque, sia per la giovane età della vittima, sia per le sue caratteristiche culturali e caratteriali, che la rendono una figura molto riconoscibile tra le figlie, le sorelle, le amiche che ognuno può contare nella propria cerchia.
In questo quadro si inserisce il discorso pronunciato dal padre di Giulia in conclusione del rito funebre: un discorso laico e posato, che si fa espressione della necessità di un cambiamento a partire dal basso, dalla comunità educativa e dalla rete sociale in cui ognuno di noi è inserito. Il fatto stesso che a pronunciare l’ultimo saluto a Giulia sia stato il padre rende la figura di Gino Cecchettin un riferimento per tutti gli uomini.
Il discorso prende l’avvio dal ricordo della figlia, di cui vengono elogiati il carattere allegro, la predisposizione allo studio, il senso di responsabilità dimostrato durante la perdita della madre. Il padre la definisce una combattente, “una oplita, come spesso si definiva”, tenace nei momenti di difficoltà e dallo spirito indomito.
Le parole dedicate al femminicidio sono di una lucidità rara: viene definito “il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne” e che attraverso l’abuso toglie loro prima la libertà e solo dopo la vita. In poche e semplici parole, il padre di Giulia offre una disamina molto precisa del fenomeno, che definisce a più riprese come un flagello e una piaga sociale. Si chiede soprattutto come possa essere accaduto questo, e la risposta che offre chiama in causa tutta la comunità educante nei suoi pilastri: famiglia, scuola, società civile, mondo dell’informazione.
Il contrasto alla violenza di genere quindi, secondo Cecchettin, può essere realizzato attraverso molteplici canali, di cui scuola e informazione costituiscono tasselli fondamentali. Ma prima di iniziare la sua analisi e avanzare le sue richieste, Cecchettin si rivolge agli uomini, che definisce “agenti di cambiamento contro la violenza di genere”, attribuendo loro un ruolo centrale nello smantellamento della cultura patriarcale. Esorta a parlare agli altri maschi “sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali”; incita al coinvolgimento, all’ascolto e a non voltare la testa davanti ai segnali di violenza, anche i più lievi.
In queste parole si cela un pensiero che atterrisce chiunque abbia figli in età adolescenziale, ovvero che le fragilità causate da un ambiente troppo competitivo generi forme di rivalsa e di rafforzamento di identità che passano anche per la possessività come antidoto alla solitudine. L’esortazione a educare all’amore vero, "che cerca solo il bene dell’altro", è centrale in questo contesto.
Parole importanti vengono rivolte alla scuola: nel discorso viene posta enfasi sulla necessità di “investire in programmi educativi che ci insegnino il rispetto reciproco e l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo, per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza”. Per educare alla relazione costruttiva e alla gestione dei conflitti è necessario coinvolgere figure altamente specializzate, che di certo non mancano nei dipartimenti di scienze umane e nel servizio sanitario nazionale.
Tuttavia, perché queste figure possano contribuire al processo educativo di cui parla Cecchettin è necessario uno sforzo a livello istituzionale, al netto delle parole vuote e dannose che abbiamo ascoltato recentemente su una ipotetica educazione affettiva.
La diffusione di notizie sensazionalistiche non solo alimenta una sfera morbosa, dando spazio a sciacalli complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Si tratta di una poderosa staffilata che mette in luce tutte le carenze dei media, la totale assenza di rispetto verso le vittime, il costante sottrarsi alla responsabilità di facilitare una comunicazione su cui si possa costruire senso, e l’insistenza al contrario nell’inquinare il discorso pubblico. Il tutto con l’obiettivo di generare profitto, nel migliore dei casi, e nel peggiore di far pendere la bilancia politica da un solo lato in tempi di campagna elettorale.
Questo discorso così mirabilmente strutturato, classico e posato, si rivolge quindi anche alle istituzioni, a cui Cecchettin chiede di affrontare in modo unitario il flagello della violenza di genere, di collaborare con le forze dell’ordine e la scuola, non verso un inasprimento delle misure repressive ma, al contrario, fornendo risorse e strumenti a entrambi per potere lavorare verso un unico obiettivo: debellare la violenza di genere.
A dispetto di chi ogni giorno dissemina fiumi di parole di odio e di vendetta, queste riflessioni aprono a una prospettiva di riflessione collettiva e di convivenza civile di cui si sente una profonda mancanza, data l’assenza di figure pubbliche che incarnino la dimensione della collettività nella sua espressione forse più alta che è quella rituale. A fronte di un vuoto richiamo a valori astratti, il discorso con cui la famiglia Cecchettin ha deciso di salutare la figlia si dimostra concreto, operativo, programmatico, ed è proprio questo l’aspetto che più di ogni altro, più della commozione e della tragedia, può innescare la scintilla di quel cambiamento vagheggiato da molti ma mai realmente voluto.
sintesi di Alessandro Bruni
per leggere l'articolo completo aprire questo link