di Chiara Giaccardi. Pubblicato in Piano C del 14 dicembre 2023.
Generare è un processo antropologicamente originario: non mettere dentro, bensì mettere fuori, far esistere, dare inizio. Niente a che vedere con la morale, il dover essere, la normatività sociale: si tratta di assecondare il movimento della vita. Una spinta traboccante, che non rimane ingabbiata nel perimetro angusto del nostro io, ma lo forza dall’interno, lo apre, lo sbilancia oltre se stesso in un movimento che lo fa crescere e sentire vivo.
L’eccedenza che sovrabbonda è pulsione di vita, per scomodare Freud, e non va confusa con la pulsione di morte che si cela dietro i nostri tanti eccessi: quando non siamo più capaci di sentire la vita, protetti dietro ai nostri muri difensivi e ai nostri schermi, per riuscire a sentire qualcosa abbiamo bisogno di andare vicino alla morte. Lo cantava già Battisti già nel 1970: “e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire”.
Del prendersi dei rischi, ovvero dello scommettere sulla vita senza lasciarsi paralizzare dalla paura di perdere, di fallire, di non farcela. E non è un caso che nella società che sogna il rischio zero e la messa in sicurezza di tutto, la fiamma vitale sia così bassa.
Generare non è riducibile né a procreare né a fabbricare (realizzare uno scopo materiale in modo sempre più efficiente e standardizzato), e nemmeno si riferisce alla intelligenza artificiale generativa di cui sempre più si parla (e che è tutt’alpiù una estrazione di informazioni dai dati già disponibili) ma ha a che fare con tutte le forme del creare, del lavorare, del produrre, dell’agire che, nel loro significato antropologicamente più ampio, sono riconducibili a questo movimento vitale e originario.
Generare, dunque, non é l’effetto di un imperativo morale. Al contrario, è espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, alla ricerca di un senso, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda.
Generare tende a instaurare un circolo virtuoso, in cui ciascuno raggiunge la soddisfazione personale mentre arricchisce il contesto sociale. Un gioco a somma positiva in cui tutti, in una certa misura, escono avvantaggiati: chi agisce – diventando autore a tutti gli effetti della propria vita – e il contesto circostante – che beneficia del lavoro di ricostituzione del legame sociale, che tende sempre a spezzarsi.
La generatività è un modo di riconoscersi nel legame: non siamo individui che fanno e fanno e disfano relazioni, ma siamo individui in quanto relazione: la relazione ci precede, gli incontri (ma anche gli scontri, le eredità, i maestri, i traumi, tutto ciò che da fuori di noi ci convoca) ci sollecitano a diventare ciò che siamo, e ciò che facciamo modifica il contesto circostante e condiziona altri. L’individuo è un’astrazione (che vuol dire separazione) e la concretezza è che noi siamo relazione.
Generare non è prescrizione di comportamenti specifici, ma una matrice di infinite possibilità vitali, basata su un dinamismo fatto di una spinta (il desiderio, da non confondere con le pulsioni o la brama di oggetti, persone, potere) e tre movimenti: il mettere al mondo, come atto supremo di libertà creativa; il prendersi cura, come dinamismo trasformativo e capacità di affezione; il lasciar andare, per far transitare la libertà su altri, per far vivere, anziché soffocare o voler controllare, ciò a cui abbiamo dato inizio, per rafforzare il legame di fiducia (da fides, che vuol dire corda, legame) con le generazioni che verranno.
sintesi di Alessandro Bruni
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