di Pasquale Giannino. Pubblicato in MicroMega del 9 marzo 2023. Stralci riassunti di Alessandro Bruni.
La guerra tra fede e conoscenza dovrebbe essere finita da tempo. Le scoperte conseguite dal Seicento a oggi, con i metodi della scienza moderna, hanno tolto a molte fedi religiose il fondamento su cui si reggevano: la centralità della vicenda umana, nella storia grandiosa del cosmo. Rimane quella combattuta fra tantissime fedi in competizione tra loro. In verità, esse hanno qualcosa in comune: i sistemi di credenze che utilizzano risalgono ad antichi miti di religioni ormai estinte, opportunamente camuffati e adattati alle nuove esigenze dottrinali. Se Dio è morto, le religioni organizzate sono vive e vegete.
A una mente razionale dovrebbe risultare evidente qual è la contraddizione profonda delle dottrine religiose: ognuna offre ai fedeli un sistema di credenze alternativo a tutti gli altri del presente, del passato e del futuro. Non servono equilibrismi logici, per sapere come stanno le cose su tali dottrine: o sono tutte false o soltanto una è vera. Fra tutti i sistemi di credenze la probabilità che l’unico vero sia quello della propria tradizione religiosa è pressoché nulla.
Dunque, il problema teologico fondamentale non è tanto l’esistenza o la non esistenza di una o più divinità, quanto la competizione millenaria fra numerose descrizioni di Dio. Essa, com’è noto, non si svolge solo a livello dottrinale, ma ha alimentato nel corso dei millenni ogni sorta di violenze, discriminazioni e fanatismi, nonché vere e proprie guerre di religione. Ecco, formulare in modo corretto e non divisivo il problema dell’esistenza di Dio non è un mero gioco intellettuale: a questo punto della storia umana, dovrebbe essere un dovere etico.
Rimane aperto un problema, che è forse il più grande e complesso di sempre: l’origine dell’esistenza e della vita. Le dottrine religiose non lo risolvono, poiché non forniscono soluzioni condivisibili. Si tratta di interrogarsi sulla causa delle leggi naturali che regolano i fenomeni fisici e biologici.
La tesi che io sostengo è questa: sono falsificabili le leggi formulate dall’uomo, per descrivere il mondo fisico e fare delle predizioni intorno ai fenomeni osservabili; le leggi del mondo fisico non si possono violare. Quelle umane sono semplici rappresentazioni di tali leggi, non bisogna confonderle. Esse nascono dall’osservazione di fenomeni particolari. Lo scopo della scienza è correggerle e migliorarle, formulando leggi valide in ambiti sempre più estesi. Questo è possibile proprio in virtù di quel criterio che Popper ha individuato, per discriminare la scienza dalla pseudoscienza: la falsificabilità delle teorie scientifiche.
Osservare un fenomeno che viola una legge fisica non è una sconfitta della scienza. È una bella notizia. Vuol dire che si è circoscritto il campo di applicazione della teoria che include tale legge, e si può lavorare per formularne una nuova migliore: ossia, una che sia anche valida per quel tipo di fenomeni che hanno falsificato la vecchia. Il punto è questo: un fenomeno può violare una legge fisica formulata dall’uomo, attraverso l’utilizzo di opportuni modelli matematici.
Ma non è la legge naturale che regola quel tipo di fenomeni. È quanto di meglio, allo stato delle conoscenze, l’uomo possa produrre per rappresentarla. Se si osserva un fenomeno che viola una legge fisica, vuol dire che la teoria da cui essa deriva non è perfetta, e la comunità scientifica si adopera per migliorarla. Non vi è alcuna evidenza che un fenomeno fisico possa violare una legge naturale che lo governa.
Le leggi che regolano il mondo fisico sono pienamente intelligibili, seppure attraverso una serie di teorie parziali che si possono via via migliorare, grazie al requisito fondamentale della falsificabilità? O le teorie scientifiche hanno una funzione meramente pratica: quella di fare delle predizioni intorno ai fenomeni fisici, che siano utili a controllarli con la tecnologia? In ogni caso, la domanda cruciale rimane la seguente: da dove provengono tali leggi?
Da un punto di vista puramente speculativo, si può tentare di rispondere superando i contrasti che derivano dai tanti diversi modi in cui ogni dottrina religiosa descrive il proprio Dio. Le sovrastrutture dottrinali non consentono di fornire una descrizione condivisibile. Bisogna sfrondare l’idea di Dio dai suoi attributi metafisici: basta descriverlo come la causa prima del mondo.
In definitiva, il problema vero rimane quello antico della causa prima. Si tratta di capire se il mondo che noi conosciamo abbia o no una causa prima, e di che natura essa sia. Le credenze e i miti che si sono diffusi intorno all’idea di Dio, nel corso dei millenni, non sono condivisibili. Molto probabilmente, sono tutti falsi.
La mia proposta consente di formulare il problema dell’esistenza di un Dio come origine delle leggi che regolano i fenomeni del mondo fisico e biologico, sfrondato dagli attributi metafisici divisivi delle dottrine religiose. È sufficiente ipotizzare che un tale Dio abbia fissato una volta per tutte le leggi fondamentali che governano l’evoluzione del cosmo e della vita, secondo le componenti del caso e della necessità, come ha ben illustrato Jacques Monod nel suo celebre saggio [Il caso e la necessità, Mondadori, 2017].
L’ipotesi che possa intervenire nelle vicende umane, invocato da un singolo individuo di una specie che ha appena duecentomila anni, comparsa dopo circa 13,8 miliardi di anni dal Big Bang su un pianeta piuttosto periferico della Via Lattea, una fra almeno 2000 miliardi di galassie stimate… ecco, tale ipotesi non è solo superflua: rivela una visione antropocentrica del mondo in netto contrasto con la conoscenza.
Spesso, durante il percorso educativo, un ragazzo impara che i valori e i principi appresi dalla famiglia o dall’ambiente in cui viene educato siano la Verità. Così, l’educazione rinuncia a quello che dovrebbe essere il suo fine più nobile: educare al rispetto degli altri. E può diventare un pericoloso strumento di incomprensione e intolleranza. Già, perché quel ragazzo, crescendo, scoprirà che ci sono tanti suoi coetanei che hanno ricevuto un’educazione diversa dalla sua; che hanno appreso verità diverse da quella che lui ha assimilato dalla famiglia, dall’ambiente e dagli adulti che lo hanno formato. Essi, magari, gli hanno trasmesso il valore della propria tradizione; gli hanno insegnato che la verità è inscindibilmente legata alla tradizione; e che bisogna difendere e rispettare la tradizione.
Un’educazione siffatta è certamente vantaggiosa, per la comunità che la condivide. Ma quando il ragazzo dovrà confrontarsi con altri giovani che sono stati educati a delle verità in contrasto con la propria, il rischio che la sua educazione lo induca all’odio e alla violenza è concreto. Allora, ecco l’importanza di un’educazione superiore, fondata su un concetto molto chiaro: la condivisibilità.
La condivisione di una “verità” basata sulla tradizione funziona all’interno della comunità che la realizza. Non può funzionare nel confronto con altre verità fondate su tradizioni diverse. Si rende necessaria un’educazione che estenda la condivisibilità del suo contenuto ben oltre i limiti dei condizionamenti familiari e ambientali; che superi l’angusto e divisivo recinto della tradizione. La condivisibilità dovrebbe essere il requisito basilare di qualunque strategia educativa.
La storia umana è fatta di un progressivo superamento di tali recinti; di una progressiva estensione degli ambiti in cui si rende possibile la condivisione dei contenuti, con i quali si compie il processo educativo. È una strada che non piace a molti. Di certo, è invisa agli ultraconservatori. Ma la dobbiamo percorrere, se vogliamo affidare alle nuove generazioni un mondo più tollerante e meno aggressivo di questo, che tuttora fomenta odio e violenze in nome della religione.
sintesi di Alessandro Bruni
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