di Elena Buccoliero. Pubblicato in Azione nonviolenta del 3 gennaio 2024.
Giulia De Marco, una delle prime otto donne magistrato in Italia, è scomparsa pochi giorni or sono. Ricordata su diverse testate come moglie di Luciano Violante – grande donna dietro a un grande uomo, è stato detto – per chi l’ha conosciuta anche solo indirettamente (è il mio caso) è stata una grande donna in sé e per sé, per come ha vissuto e per il contributo che ha dato.
Nel 2023 appena concluso, tra altri anniversari, si è celebrato anche il 60° dall’ingresso delle donne in magistratura (legge 66/1963). Prima di allora, in virtù di una legge del 1919, le donne potevano svolgere tutte le professioni ma non i ruoli “che implicano poteri giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politica o che attengano alla difesa militare dello Stato”.
Un confronto sul tema, alla Costituente, si era spento ritenendo le donne poco razionali, eccessivamente influenzabili o fisiologicamente negate per ruoli decisionali in determinati periodi del mese. «Avevano dichiarato che le donne mancano di temperamento, di forza d’animo, di fermezza di carattere, di resistenza fisica», ha ricordato Giulia De Marco nella sua testimonianza, a Roma nel 2013, per un anniversario – il cinquantesimo – più adatto alle celebrazioni. «Ebbene, in 50 anni abbiamo dimostrato quanto quelle obiezioni fossero infondate, frutto solo di un malcelato maschilismo».
Una donna in un mondo al maschile
Era il 1963. L’uomo era il capofamiglia, poteva tradire la moglie ma non doveva essere tradito, difatti esisteva, specialmente per le donne, il reato di adulterio mentre, per gli uomini, il trattamento era privilegiato se uccidevano per “delitto d’onore”. L’uomo poteva picchiare la moglie e i figli a scopi “educativi”, poteva violentare una ragazza e sfuggire alla pena con il matrimonio riparatore, poteva pretendere che la moglie pagasse il “debito coniugale” assecondandolo sessualmente ogni volta che lui lo imponeva. E non c’erano il divorzio né l’interruzione di gravidanza.
«Come venimmo accolte noi otto giovanissime donne in questo mondo maschile e maschilista?», ha ricordato Giulia De Marco nella sua relazione. «Con benevola tolleranza dai magistrati anziani che ci trattavano alla stregua di figlie un po’ ribelli; con un certo fastidio dai colleghi coetanei che ci vivevano come potenziali rivali, avendo conosciuto sui banchi di scuola la nostra determinazione, la nostra intelligenza, la nostra capacità di impegno; con un certo sospetto dagli avvocati per i quali rappresentavamo un’assoluta incognita».
Dopo un buon periodo al tribunale di Milano con un presidente «intelligente, moderno, democratico, sinceramente convinto della parità fra i due sessi», chiede il trasferimento al sud per motivi di famiglia. «Lì ho trovato colleghi reazionari e un presidente che di fronte alla mia gravidanza fece lo struzzo: decise di non vederla e mi costrinse a lavorare durante il periodo feriale, appellandosi al fatto che ero il magistrato più giovane. Credo di avere dimostrato di quanta forza d’animo, fermezza di carattere, resistenza fisica, tanto per chiosare quei parlamentari “saccenti”, siano capaci le donne. Tenni quindi testa a quel presidente e non presi un solo giorno di congedo facoltativo…».
In pretura, poi nella giustizia minorile
Nel 1968 Giulia De Marco si trasferisce alla Pretura di Torino, «tanto vecchio quel palazzo da avere solo gabinetti alla turca, tutti aperti. La nostra prima battaglia “femminista”, fu per ottenere dei bagni normali e che si potessero chiudere a chiave».
Pretore civile per 3 anni, poi pretore del lavoro per 11, lascia l’incarico quando il capo dell’ufficio dubita che possa essere imparziale nel giudizio, in quanto moglie di un deputato comunista. Approda così al Tribunale per i minorenni di Torino.
«All’inizio mi disorientò. Abituata alla monocraticità, mi ritrovai a decidere in un collegio, passaggio non facile, ma soprattutto insieme a persone che non erano giuristi ma psicologi, sociologi, criminologi, pediatri, e il cui voto contava quanto il mio. Poco a poco quel lavoro mi entrò nel sangue. Lavorare con i giudici onorari, non leggere solo sentenze della Cassazione e testi di diritto ma cimentarsi con letture di scienze diverse, parlare quotidianamente con persone che svolgono lavori diversi dal tuo, confrontarsi con gli amministratori per individuare quello che il territorio offre, potrebbe o dovrebbe offrire ai minorenni, conoscere le potenzialità del privato sociale, parlare nelle scuole, tutto questo mi ha arricchita moltissimo. Sono rimasta in quel Tribunale per ventitre anni; gli ultimi nove come Presidente. Nel maggio del 2005, dopo 41 anni di lavoro, ho deciso di andare in pensione».
Il lavoro, una parte integrante della propria vita
«Non ho mai ritenuto incompatibili fra di loro la carriera e la vita familiare. Piuttosto complementari; più esattamente, flessibilmente complementari nel senso che in alcuni periodi ho privilegiato le esigenze familiari (ad esempio quando ho scelto di fare il pretore civile e di occuparmi di incidenti d’auto, lavoro noiosissimo che mi consentiva però di seguire i miei due figli piccoli), in altri, quando sono stata più libera da impegni familiari o perché mi sono sentita pronta e disponibile, ho scelto funzioni più impegnative e gratificanti».
Il lavoro, per Giulia De Marco, è stato una esperienza di crescita «come cittadina, come donna, come madre. Quando ero Pretore del lavoro ho conosciuto il lavoro in fabbrica, ripetitivo, rumoroso, temporizzato, spesso pericoloso come può essere quello alle presse, alla verniciatura, alle fonderie e questo mi ha portato a valutare con altri occhi l’assenteismo, alcune insubordinazioni, alcune rivendicazioni dei lavoratori. Come giudice del Tribunale per i Minorenni, ho incontrato gli ultimi della scala sociale: i poveri morali e materiali, i malati di mente, gli alcolisti, i drogati e le loro famiglie. Soprattutto i loro bambini, trascurati, spesso poco amati, talvolta abbandonati. Famiglie patologiche o famiglie normali che la conflittualità e il disamore separano, spezzano, distruggono, travolgendo i figli. Non è il parto che ti fa diventare madre ma un impegno costante e un’attenzione continua verso i tuoi figli».
«Mi è stato chiesto più volte se mi fossi sentita un simbolo per essere stata fra le prime donne in magistratura. Assolutamente no ma sono orgogliosa di essere stata una donna magistrato. E quando leggo delle giovani colleghe, dei loro processi, delle loro affermazioni professionali, mi accorgo di provare l’affettuoso orgoglio che può provare una madre. Voglio chiudere con una citazione. “Il genio femminile è necessario nei luoghi i cui si prendono decisioni importanti”. Non “le donne”, ma “il genio femminile”. Lo ha detto Papa Francesco in una intervista concessa a Civiltà cattolica. Con buona pace di chi ci riteneva incapaci di decidere».