di Libertariamind. Pubblicato in Il salto di Rodi del 22 agosto 2023.
Hanno comprensibilmente destato scalpore le dichiarazioni di Björn Höcke, portavoce di Afd (Alternative für Deutschland), in merito al sistema educativo tedesco. In estrema sintesi, secondo Höcke in esso vi sarebbero dei “fattori di stress” da rimuovere: i troppi (secondo lui) alunni stranieri, l’immancabile ideologia gender e, ciliegina sulla torta, gli alunni disabili, da confinare (par di capire) tutti in classi differenziali.
Ora, non mi interessa sprecare pixel su dichiarazioni che, con ogni evidenza, si commentano da sole; quello che trovo molto più interessante è offrire al lettore una panoramica su quanto accade nel nostro Paese, visto che molti commentatori nostri connazionali, dopo aver sentito le dichiarazioni di Höcke, sono subito scattati all’impiedi additando l’Italia come faro nel mondo da seguire per l’inclusione scolastica dei disabili, al grido di “Da noi le classi differenziali sono state abolite nel 1977!”. Il mio è il punto di vista di chi lavora da qualche anno nella scuola secondaria superiore, il più delle volte proprio come insegnante di sostegno.
In primis, credo di poter affermare che quello dei diritti dei disabili a scuola è uno degli ambiti in cui più drammaticamente abissale appare il divario tra gli alti princìpî scritti nelle grida manzoniane sfornate dal Parlamento e la realtà.
La barzelletta più amara riguarda la continuità didattica, ossia il principio (solennemente espresso dall’art.14 del Dlgs 66/2017) secondo cui gli alunni con disabilità avrebbero diritto alla “continuità educativa”, ossia al non dover cambiare docente di sostegno ogni anno. Su quanto questo principio venga disatteso esiste una vasta letteratura: a titolo d’esempio estremo segnalo questo caso di alunna che ha cambiato 21 insegnanti di sostegno in pochi anni.
Ma perché accade tutto ciò? Semplice: perché gli insegnanti specializzati sul sostegno sono molti meno del necessario, e le procedure previste dalle leggi per specializzarsi sono incredibilmente lente, costose e spesso demenziali. Così, non bastando i posti dalle graduatorie apposite, si ricorre a quelle “incrociate”: si assegnano cioè le cattedre a persone di altre classi di concorso, magari senza esperienza pregressa alcuna, che hanno dato la disponibilità alla mansione.
Quanto all’abilitazione sul posto di sostegno, la situazione è tragicomica. Ci si abilita dopo aver svolto un TFA (tirocinio formativo attivo) gestito da un’Università, sborsando cifre che possono arrivare anche a 4000€, a patto naturalmente che si riesca ad entrare; i posti infatti sono limitati, e così si ricorre a dei concorsi per stabilire chi entra e chi no. Per inciso: che tali tirocinî abbiano un qualche valore, a parte quello legale, è cosa assai discutibile, soprattutto a detta di chi li ha frequentati; ciò non toglie che alcune famiglie, intrise di quella cultura del pezzo di carta così diffusa in Italia, esigano un docente con l’abilitazione. Salvo poi, magari, dichiararsi comunque insoddisfatte alla fine dell’anno.
Ad ogni modo, i concorsi per accedere al TFA (per partecipare ai quali occorre ancora una volta pagare cifre che si aggirano tra i 100 e 200€) prevedono tre prove: una preselettiva, una scritta e una orale. Queste ultime due riguardano argomenti che pressoché nulla hanno a che fare con il mestiere dell’insegnante di sostegno: il più delle volte si parla di legislazione scolastica, o, per meglio dire, di quanto essa sia la migliore al mondo. Un po’ come la Costituzione, insomma, e guai a chi dissente.
È proprio su questo ultimo punto che vale la pena soffermarsi un po’, anche per ricollegarsi alle dichiarazioni di Höcke da cui siamo partiti.
Come ben illustrato qui, in Europa esistono tre modelli di sistemi educativi:
- quello cosiddetto di inclusione, in cui le famiglie che hanno figli con disabilità non hanno alcuna libertà di scelta, essendo obbligate dallo Stato ad iscrivere i figli nelle scuole “di tutti” e inseriti nelle classi altrettanto “di tutti”. Le classi differenziali all’interno delle scuole comuni sono state abolite nel 1977
- il sistema multidirezionale, quello più diffuso, che lascia che siano le famiglie a scegliere se inserire i figli in classi comuni o differenziali
- quello bidirezionale, in cui c’è sostanziale separazione tra alunni disabili e normodotati. Quest’ultimo modello, ancora usato in Svizzera e Belgio fino ai primi anni 2000, è oggi sempre meno presente
Come si può notare, dunque, la maggior parte dei Paesi europei – compresi quelli a cui solitamente guardiamo come punti di riferimento, dai leggendari scandinavi alla Germania – adottano un sistema diverso da quello italico; il nostro Paese si trova insieme alla “solita compagnia” (Grecia, Portogallo e Spagna), fatto che già di suo dovrebbe far suonare un campanello d’allarme, almeno a modesta opinione di chi scrive. Tuttavia, non è con questi odiosi pregiudizi che si deve ragionare. Vediamo allora qualche fatto, condito con esperienze di vita vissuta.
Intanto, poniamoci la domanda fatale: è giusto preoccuparsi che un modello, oltre ad essere bello-buono-giusto sul piano morale, sia anche efficace? Ho la sensazione che il legislatore italiano questa domanda tenda a non porsela quasi mai, e non solo in merito all’inclusione scolastica: nel nostro Paese egli ha deciso che le classi differenziali erano inaccettabili sul piano etico, e ipso facto andavano abolite.
Non solo: nelle Linee guida per l’integrazione scolastica ha pure precisato che è contraria alle disposizioni della Legge 104/92, la costituzione di laboratori che accolgano più alunni con disabilità per quote orarie anche minime e per prolungati e reiterati periodi dell’anno scolastico.
Neanche i laboratori vanno bene. Gli alunni con disabilità vanno tenuti in classe tutti e il più a lungo possibile, perché il legislatore ha deciso così, punto e basta; non importa se seguono un programma differenziato, o se hanno patologie specifiche per le quali talvolta sarebbe assai meglio portarli fuori, anche solo per qualche minuto od ora al giorno. Alla faccia dell’individualizzazione della didattica, altra utopia strombazzata in altre grida manzoniane, secondo le quali, in estrema sintesi, un docente con cento alunni dovrebbe “individualizzare i percorsi di apprendimento e le procedure didattiche” per tutti e cento gli alunni. Il lettore può ben immaginare quanto tutto ciò trovi applicazione nel mondo reale.
Il punto è che al legislatore italiano (e, a cascata, ai burocrati e giù fino ai pubblici impiegati più umili) non sono mai interessati i risultati prodotti dalle leggi; l’importante è apparire (o risultare statisticamente) inclusivi, e per farlo la via più semplice è piazzare per legge i disabili in classe insieme agli altri. Si guardi, banalmente, l’articolo già citato: il grado di civiltà di un Paese viene misurato in base alle percentuali di alunni disabili inseriti in classe con i normodotati. L’Italia, secondo l’autore di quell’articolo, è il traguardo della civiltà, e al momento quel traguardo l’hanno raggiunto solo Spagna, Grecia e Portogallo: tutti gli altri Paesi stanno uscendo dalle tenebre.
Non importa se e quanto i diretti interessati e le loro famiglie sono rimasti soddisfatti di quelle scelte. E qui immagino che qualcuno si starà chiedendo perché mai un alunno disabile dovrebbe non essere contento di esser messo in classe insieme agli altri. La risposta è semplicissima: perché il mondo reale non è tutto rose e fiori, e gli adolescenti non sono dei francescani pronti ad accogliere il prossimo a braccia aperte, vivendo la diversità come un dono; al contrario, le evidenze statistiche raccontano che gli studenti con disabilità sono soggetti a bullissmo e violenza assai più dei normodotati.
Mi è capitato più di una volta di discutere di quest’ultimo argomento con colleghi e superiori. La risposta a queste obiezioni è sempre stata la stessa: se ci sono episodi di bullismo, la soluzione è “affrontare il problema”, ad esempio parlandone pubblicamente in classe e/o mettendo in atto tutte quelle belle strategie che il Ministero suggerisce (cioè guardare filmati, organizzare incontri con esperti esterni, e magari concludere il “percorso” con la produzione di tanti bei cartelloni colorati con scritto “abbasso il bullismo” da affiggere in classe). Ma guai a pensare di separare l’alunno dal resto della classe: sarebbe una sconfitta!
Funziona tutto ciò? Generalmente no, ma – di nuovo – l’idea che le azioni debbano essere valutate in base ai risultati concreti sembra estranea al mondo della pubblica amministrazione. Molto più importante l’assolvimento formale degli obblighi di legge, che nove volte su dieci si concretizza nella produzione-firma-protocollazione di documenti scritti. Nel caso del bullismo, l’ultima trovata si chiama Patto educativo di corresponsabilità.
Se poi l’orizzonte si allarga a cosa accade dopo la scuola, i dati sono assai poco confortanti: il tasso di occupazione delle persone disabili in Italia è al 20%, contro una media UE del 50%. Posto che due eventi tra loro correlati non sono necessariamente uno la causa dell’altro, è altrettanto vero che la formazione ricevuta incide parecchio sulle possibilità di occupazione, tanto tra i normodotati quanto tra i diversamente abili.
Non solo disabili: il caso degli alunni stranieri
Il dramma vero, in tutto ciò, è che il discorso sull’inclusione non riguarda soltanto i disabili, ma anche – ad esempio – gli stranieri che non parlano italiano (li chiamo così perché sono mentalmente anziano e ci tengo alla chiarezza espressiva: in Neolingua si dice “alunni con Bisogni Educativi Speciali linguistici”, o meglio ancora “alunni NAI – NeoArrivati in Italia”).
Può capitare, in alcune scuole, di trovarsi in classe con svariati studenti che non conoscono una singola parola di italiano. Quando va bene (cioè quando ci sono i fondi per farlo) la scuola organizza dei corsi di alfabetizzazione, ma nel frattempo i suddetti alunni trascorrono quadrimestri interi a vegetare nelle classi; qualcuno se la cava con la tecnologia (ormai i traduttori negli smartphone fanno miracoli), ma il più delle volte ciò non accade.
Ora provate voi, cari lettori, a immaginare cosa succede, nella maggior parte dei casi, quando qualcuno propone di istituire classi separate non dico per tutte le materie, ma anche solo per l’insegnamento della lingua italiana, raggruppando gli alunni in base al livello di conoscenza. Se vi siete immaginati reazioni sdegnate di gente che pontifica su “segregazione” e “ghetti”, contrapposte all’ideale dell’inclusività, avete indovinato.
Anche in questo caso, se si vanno a guardare i risultati, le braccia cascano: i tassi di abbandono scolastico tra gli alunni NAI sono drammaticamente più alti rispetto a quelli dei madrelingua.