di Luigi Viviani. Sguardi al futuro politico.
La Conferenza di fine anno della premier Meloni, grazie anche ai limiti di metodo, che non prevedendo la possibilità del giornalista che ha proposto una domanda di poter replicare circa la corrispondenza della risposta, ha favorito la naturale propensione della premier alla propaganda, ampiamente usata.
Al termine di 42 domande-risposte e tre ore di confronto, l’insieme di quanto è emerso consente di avere un’idea sufficientemente chiara di qual è il Paese che Meloni ha in mente per cui siamo in grado di capire dove vuole portarci. Nell’economia di questo scritto, ci concentreremo su alcuni aspetti di particolare importanza che sono tuttavia determinanti circa la qualità del futuro che ci aspetta.
La prima e più decisiva questione riguarda la riforma della Costituzione. Il premierato, cioè l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, non solo è stato confermato come prioritario, ma con una motivazione decisa e falsamente rassicurante. L’elezione diretta del premier è considerata l’unica via per una maggiore stabilità dei governi, mentre l’equilibrio dei poteri rispetto al Presidente della Repubblica e al Parlamento sarebbe garantito dal fatto che la riforma non prevede di toccare i poteri di tutte le parti in causa.
Ma qui Meloni gioca nel torbido perché la rottura non deriva tanto dal cambiamento formale dei poteri quanto dalla differente legittimazione per la diversità del voto di elezione. Il Presidente della Repubblica si troverebbe a dare disposizioni ad un governo che ha ricevuto una legittimazione più forte di lui, e il Parlamento, cuore e vertice del potere democratico, si troverebbe nella medesima situazione, con l’aggravante che diverrebbe, nei fatti, dipendente dall’esecutivo.
Per capire meglio cosa succederebbe in quest’ultimo caso, basta osservare quanto si è determinato in occasione della stessa conferenza quando Meloni ha difeso Salvini nella scelta di non presentarsi in Parlamento a riferire sulla vicenda Verdini perché non sarebbe implicato. In tal modo si sono compiuti due gravi violazioni costituzionali perché un ministro non può disattendere una richiesta del Parlamento a riferire su questioni che riguardano il suo ministero, e perché non compete al Primo ministro del governo, tanto più con questa motivazione, stabilire, se un ministro deve o non deve presentarsi al Parlamento.
Se questo avviene oggi, è fin troppo facile capire cosa si verificherebbe con il premier eletto direttamente dal popolo. Quindi la rottura dell’equilibrio generale dei poteri costituzionali c’è tutta. In questa materia, sempre nella conferenza stampa, si è creato un ulteriore problema relativo al ruolo della Consulta. Dopo che qualche giorno fa l’ex-presidente Giuliano Amato, in un’intervista, aveva espresso alcune preoccupazioni circa la ricezione delle sentenze della Consulta perché si metteva in discussione il carattere di neutrale superiorità di tale organismo.
La risposta di Meloni alla conferenza è stata una inappropriata e settaria polemica, sui presunti privilegi della sinistra nella Consulta medesima, per cui, a questa provocazione, Amato ha risposto con le immediate dimissioni dalla presidenza della Commissione sull’Intelligenza Artificiale. Un altro aspetto preoccupante riguarda le prospettive dell’economia italiana nel 2024.
Alla domanda su come il governo intende far fronte alla necessità di reperire 32 miliardi, indispensabili per confermare nel 2025 le misure inserite una tantum nella manovra appena approvata (taglio del cuneo fiscale, riduzione Irpef) e applicare le nuove regole europee del Patto di stabilità. La Premier ha risposto sbrigativamente che serviranno la crescita, i tagli della spesa pubblica e le privatizzazioni.
Una risposta del tutto illusoria perché le prospettive di crescita del Pil per l’Italia, previste dal Fmi e da Bankitalia nel 2024, sono dello 0,6-0,7%, cioè la metà della crescita media europea pari a 1,3%, per cui dalla crescita è estremamente difficile reperire riforme, mentre le altre misure sono tutte da definire. Ciò significa che manca una strategia per lo sviluppo, e che andiamo incontro al futuro ad occhi chiusi. Altre perplessità suscita la risposta relativa al problema dei migranti, per la quale Meloni si è limitata ad affermare che anche l’Ue ha recepito in buona parte la linea italiana di lavorare per fermare i migranti nei Paesi d’origine.
Il nuovo Patto europeo per l’immigrazione e l’asilo si muove in questa direzione, mentre limitandosi ad esaltare genericamente il Piano Mattei, non ha detto niente sui crescenti problemi di applicazione delle intese con la Libia e con l’Albania. L’insieme di tali prospettive delineano un Paese in via di mutazione in alcuni aspetti essenziali della propria democrazia repubblicana regolata dalla Costituzione, e con prospettive di crescita del tutto incerte e inadeguate per l’assenza di politiche di regolazione e di sviluppo minimamente pensate. Di fronte a tali limiti il governo cerca di rispondere con gli strumenti ormai usuali della propaganda e del vittimismo, propri di una narrazione in larga parte diversa e alternativa alla realtà dei fatti.
Una prospettiva da non sottovalutare, avendo presente che, come afferma De Rita, le convinzioni degli italiani si formano in gran parte sulla base dei messaggi del momento, veicolati dai media e dai social. Siamo di fronte a una politica che divide l’Italia e alimenta un conflitto sulle regole della nostra convivenza, senza intravvedere possibilità di mediazione. In tal modo anche il nostro Paese risulta più esposto di quanto si creda a una regressione della democrazia così come sta avvenendo in Paesi come la Polonia e l’Ungheria. I convinti democratici devono essere consapevoli di tale pericolo e lavorare, ognuno al livello delle proprie possibilità, per scongiurare questo grave pericolo.