di Sergio Belardinelli. Pubblicato in Paradoxa forum del 22 gennaio 2024.
Da un paio d’anni a questa parte mi è capitato più volte di scrivere sul politicamente corretto e su quella che considero una sua diretta conseguenza: la cosiddetta cancel culture. Il politicamente corretto di cui parliamo nasce verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, allorché la sinistra americana incomincia a distogliere lo sguardo dalle classi sociali più svantaggiate per concentrarsi sempre di più sui diritti civili e la tutela degli interessi di un’ampia varietà di gruppi percepiti come marginalizzati: le donne, i neri, gli immigrati, la comunità Lgbt e simili.
Siccome il linguaggio è una specie di deposito privilegiato dei modi di pensare e di sentire dei singoli e delle comunità, è proprio sul linguaggio che inizia una vera e propria battaglia, nel tentativo di bandire parole che potessero in qualche modo evocare una qualsiasi forma di discriminazione. In quegli anni da noi si ironizzava soprattutto sul fatto che lo spazzino si dovesse chiamare operatore ecologico, la donna delle pulizie collaboratrice domestica, il portatore di handicap diversamente abile e cose simili, ma c’era effettivamente poco da ironizzare sul fatto che finalmente diventava disdicevole apostrofare le donne, i neri o gli omosessuali nei modi volgari coi quali erano stati apostrofati per secoli. Bisogna quindi riconoscere che per molti versi il politicamente corretto rimarcava un’istanza di rispetto che certamente ha contribuito non poco a rendere più civile e inclusiva la nostra convivenza.
Purtroppo però, specialmente con l’arrivo dei social, quest’istanza andrà ben oltre l’attenzione all’uso delle parole e alle molestie verbali, radicalizzandosi in forme sempre più illiberali di pratiche identitarie, osteggiate con sarcasmo da destra, che però finiranno per destare non poche preoccupazioni anche a sinistra, assumendo una veste sempre più aggressiva e pericolosa: la cosiddetta cancel culture, diffusa ormai non soltanto a sinistra e non soltanto in America. Statue, quadri, opere letterarie vengono rimossi o messi all’indice; eminenti uomini politici, filosofi, scrittori, artisti o imprenditori filantropi del passato vengono giudicati secondo un criterio che non si cura minimamente del contesto storico in cui essi sono vissuti, ma si basa soltanto sulla sensibilità morale e culturale di coloro che giudicano.
Come ho scritto in un articolo pubblicato lo scorso anno in un fascicolo della rivista Paradoxa meritoriamente dedicato alla cancel culture, potremmo dire che siamo di fronte all’espressione di una volontà che non riconosce altro limite che se stessa. Basta che qualcuno si senta offeso per qualcosa e si scatena il putiferio. E quel che è peggio è che questa suscettibilità, questo volontarismo vacuo hanno contagiato ormai gran parte della cultura politica americana, diffondendosi anche in Europa. A tutti i livelli si assiste a un preoccupante imbarbarimento del dibattito pubblico.
Il fatto è che la cancel culture non si cura affatto delle ambivalenze della storia; si esprime preferibilmente in modo vandalico nei confronti del passato, come se esso potesse essere restituito a una e una sola dimensione. Una chiusura fanatica e manichea, utile a eccitare gli animi di coloro che sono ‘dentro’ ma assai lontana dalla realtà, dalla verità e dall’universalismo che contraddistinguono la cultura occidentale.
sintesi di Alessandro Bruni
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