di Piero Stefani. Pubblicato in il Regno del 15 febbraio 2023. Sintesi con rielaborazione di Alessandro Bruni. Invito alla lettura del testo originale.
C'è una espressione proverbiale tanto comune da essere persino un poco triviale: «Sono solo come un cane». Il cane è l’animale che rende più manifesto il suo patire la solitudine, non già quello che è più solo. Lo fa anche perché capace di legami tanto intensi con gli esseri umani che noi, in un certo senso, ci identifichiamo con lui.
Lo facciamo soprattutto quando viviamo una solitudine imputabile a coloro che, senza giustificazione, ci hanno abbandonato, o più semplicemente piantato in asso. Essere soli come un cane è frutto di azioni di cui non si comprendono le ragioni. In certi casi, però, il paragone viene svuotato dall’interno. Esistono solitudini che incontrano una presenza invisibile agli occhi dei più. Per trovarle non è obbligatorio rivolgersi ai mistici, né guardare agli eremi.
Firenze, una domenica mattina invernale, sul presto. Strada semideserta, qualche raro passante nella fioca luce di una giornata che sta schiudendosi all’insegna del grigio. Sotto il portico della SS. Annunziata c’è Michele, un romeno sulla quarantina, chiede l’elemosina. Dice d’aver lavorato con orari lunghissimi, paga scarsa e incerta; poi è finita anche questa risorsa. Ha dormito per 8 anni sotto un portico.
Ora Michele ha un tetto. L’interlocutore gli chiede se è solo. II suo intento è unicamente di sapere se condivide o meno la stanza con qualche altra persona, o se, magari, ha con sé la famiglia. La risposta è inattesa: «Non sono mai solo, perché il Signore è sempre con me». L’ascoltatore non dubita della sincerità della risposta, la raccoglie nel silenzio del cuore e ha conferma che la fede abita in territori più profondi di quelli raggiungibili dalla psicologia.
Con Michele si limita a precisare il senso della sua iniziale domanda. Apprende che la moglie, i due figli e la vecchia madre risiedono ancora in Romania. Gli dà qualche soldo, lo saluta. Dice tra sé che anche se, come probabile, in vita sua non lo rivedrà più, l’ha comunque incontrato.
C’era solo lui, tuttavia all’uomo non è messa in bocca alcuna lamentela. Egli non patisce la solitudine. Per accorgersi di quanto ci manca occorre un confronto con l’altro da sé. Se al mondo ci fossero solo poveri, nessuno di loro s’accorgerebbe di esserlo. È la presenza dei ricchi a rendere poveri i poveri. È l’esistenza dei sani a rendere malati i malati, e così via.
All’inizio l’uomo non sapeva che cosa gli mancasse. Unicamente quando ha avuto l’esperienza dell’altro da sé – o meglio dell’altra da sé – ha scoperto lo spessore della passata privazione. Il mito dell’uomo a cui Dio fa capire la sua primordiale solitudine indica, in chiave antropologica, una prospettiva orientata in senso opposto a quella secondo la quale l’amore (eros) sta nel tentativo di raggiungere quanto si era perduto.
Trovare ciò che si è perduto è assai diverso dall’incontrare chi non si è mai conosciuto. In questa luce conviene rilevare che la linfa del mito platonico è strutturalmente omosessuale, la sua direzione comporta, infatti, il ritorno all’omogeneo. Nel testo del Convito si parla, non a caso, di tre specie di umanità originaria: maschio-maschio, femmina-femmina; maschio-femmina; ognuna delle quali, una volta scissa, va alla ricerca della propria metà.
Quali che siano le modalità pratiche della vita sessuale, si può senz’altro affermare che nell’eros platonico il primato nell’amore è modellato sull’«omo» e non già sull’«etero». La solitudine è una perdita, non già un punto di partenza. L’idea di completamento come ritorno all’unità primordiale fa prevalere omogeneità e fusione su differenza e relazione.
In prospettiva antropologica, il discorso manifesta però un’articolazione differente. Per incontrare radicalmente l’altra persona, l’essere umano deve staccarsi dalla propria origine (simboleggiata dai genitori). Vale a dire, ha bisogno di avere esperienza della propria solitudine. Anzi, più esattamente, deve acquistare la consapevolezza che è stato l’incontro a svelargli lo spessore della sua precedente solitudine.
Rubando un verso a Borges si può affermare: «Contano i legami», quelli costruiti ancor più di quelli ereditati.