di Giorgio Tourn, Stralcio di pag. 70-71 proposto da Alessandro Bruni. Tratto da Né vita né morte. Interrogativi sul morire. Claudiana, 2011.
Nel tentativo di condurla a interpretare la sua vicenda, avevo fatto ricorso nei primi giorni a una chiave di lettura: vivere la sua situazione personale, e cioè padroneggiarla, attraverso una presa di coscienza della sua corporalità, mi pareva un approccio convincente o per lo meno possibile. Con il passare dei giorni risultava invece del tutto inadeguato. E' ben vero che ogni atteggiamento, anche il più assurdo, contiene sempre un elemento di verità, e anche questo non poteva esserne del tutto privo, ma non dava una spiegazione adeguata delle realtà.
Leggere la sua condizione come frutto di incoscienza, di superficialità, del timore del medico, non era pertinente.
Si era trascurata perché troppo assorta negli impegni, nel libro, nella scuola, o forse perché aveva negato l'evidenza dei fatti, in qualche modo per non vedere la realtà ecc., probabilmente tutto vero, ma si trattava di una lettura parziale che non gettava una luce chiarificatrice sulla sua malattia.
La mia lettura, in chiave neoplatonica, o forse gnostica, poteva avere qualche fondamento, ma andava presa con cautela. Forse la verità andava cercata in un'altra direzione. Fu il discorso con i medici ad aprirmi una prospettiva.
Pur mantenendo una diagnosi ormai definitiva, l'eventualità di un suo ritorno a casa per trascorrervi gli ultimi tempi, li aveva condotti a compiere ulteriori analisi, lo stato generale risultava ormai tale da rinunciare a ogni intervento.
E a questo punto mi sorse l'interrogativo: che sarebbe accaduto qualora la malattia fosse stata diagnosticata in tempo? A cui si associava però subito l'altra: come avrebbe affrontato, in questo caso, il destino che l'attendeva?
Con ogni probabilità si sarebbe delineata la situazione che si verifica in casi analoghi: l'interminabile calvario delle sedute ospedaliere, le logoranti chemio o radioterapie, l'altalenare di miglioramenti e ricadute, il lento inesorabile disintegrarsi del corpo. Tutto questo non era stato oggetto della sua riflessione, perché non sapeva che su di lei incombeva questa realtà; ma siamo proprio sicuri? Lei non sapeva, certo, ma il suo corpo?
Mi veniva perciò da domandarmi se correndo qualche rischio (chi può infatti analizzare gli stati d'animo altrui, penetrare nei meandri dell'inconscio?), non si potesse avanzare l'ipotesi che il suo inconscio, cioè lei stessa nelle profondità del suo essere, dove il corpo e l'anima si fondono, avesse compiuto la scelta di gestire il suo vivere e il suo morire: vivere autonoma e libera, pochi giorni di forzata immobilità e dipendenza da altri, e poi la tenebra luminosa della morfina.