di Massimo Recalcati. Filosofo e analista lacaniano della società. Pubblicato nel blog dell'autore e in la Repubblica il 4 febbraio 2024.
Il destino dell’inconscio sarà eguale a quello dei dinosauri? Potrebbe, l’inconscio, andare incontro a una fatale estinzione? E la psicoanalisi? Non è forse oggi minacciata davvero dal rischio di scomparire per sempre? E gli psicoanalisti? Quale sarebbe la loro responsabilità per questa estinzione? Insomma, quale sarà l’avvenire della psicoanalisi nella nostra civiltà? Quale sarà, cioè, la possibilità per il soggetto dell’inconscio di continuare a esistere?
Pongo queste domande in una forma volutamente estrema e paradossale, per andare immediatamente al contenuto di questo libro. Si tratta dell’elogio appassionato di uno psicoanalista nei confronti di quel particolare oggetto – l’inconscio – che oggetto non è, nel senso che non risponde alla nozione empirica di oggetto, e che costituisce il centro dell’attività teorica e clinica della psicoanalisi.
Il nostro tempo rischia davvero di essere l’epoca dell’estinzione dell’inconscio. L’ideale del principio di prestazione si è imposto come un nuovo comandamento sociale. Una mutazione antropologica ha ridotto la realtà umana a quella di una macchina che deve dare continuamente prova della sua efficienza. È un’onda lunga che sembra oggi arrivata a riva. Il mito del successo individuale si è affermato come una nuova norma sociale. L’adattamento al sistema implica un’idea omogenea di felicità che deve essere condivisa socialmente senza lasciare alcuno spazio alla critica.
L’iperattivismo euforico che pervade il discorso del capitalista disegna una forma inedita di umanità che vorrebbe scongiurare il disagio e la sofferenza in nome di un benessere il cui diritto non può essere contestato. La libertà di massa acquisita storicamente esige infatti l’accesso illimitato a un godimento che ha sostituito il regime tetro del dovere morale. Ne deriva che la cosiddetta malattia mentale sembra aver cambiato registro; essa non riguarda più la deviazione dalla norma, l’anormalità, la sragione, l’eccentricità anarchica della follia.
In primo piano non sono più l’esclusione, la segregazione e il confinamento della sragione colpevole di abbandonare i saldi e luminosi ormeggi della ragione umana. Il nuovo volto della follia è oggi piuttosto quello della normalità che si impone come norma sociale, del soggetto iperadattato, della sua obbligatoria efficienza operativa, del principio di prestazione come principio fondativo del quadro della realtà.
La nuova follia non ha più nulla a che fare con l’irrazionalità delirante che sfida la normalità, ma con un eccesso di identificazione alla norma. Ma se la follia ipermoderna consiste nel credersi un Io, l’esistenza dell’inconscio ci ricorda che è proprio nel nome del rafforzamento del principio egoico di identità che si scatenano le peggiori catastrofi. Sul piano individuale: narcisismo maligno, violenza, inaridimento creativo, presunzione, prepotenza. Sul piano collettivo: distruttività, guerra, fanatismo ideologico, razzismo. L’irrigidimento dei confini dell’Ego, più che il loro cedimento, è infatti, per la psicoanalisi, l’origine di ogni genere di “malattia mentale”.
Ma non c’è formazione della vita se non come alleanza tra la vita e il suo desiderio. Si tratta di stipulare un nuovo patto, un nuovo accordo tra il soggetto e il proprio desiderio inconscio. Si tratta di non vedere l’inconscio come una minaccia da estirpare o dalla quale doversi difendere, ma come un’amicizia da coltivare. È il grande insegnamento clinico della psicoanalisi: la chiamata dell’inconscio – la sua istanza – non andrebbe né silenziata né ignorata. Ma per accoglierne la petizione è necessaria una responsabilità radicale. L’elogio dell’inconscio ci costringe, infatti, a riformulare la categoria etica della responsabilità dissociandola da quella di padronanza. È questo uno degli effetti più rilevanti della sovversione freudiana del soggetto.
Mentre nell’etica tradizionale, che trova il suo apice nella saggezza aristotelica, la responsabilità coincide con il controllo delle passioni, con il loro disciplinamento, con la moderazione della loro strutturale intemperanza, quella che possiamo ricavare dalla psicoanalisi è un’etica che rinuncia ad ogni ideale di padronanza. Non si tratta, infatti, di addomesticare l’inconscio, di neutralizzarne la forza, di colonizzarne il territorio, ma di consegnarsi alla sua chiamata con intrepidezza. Di riconoscere l’incompetenza dell’Io nel coltivare l’amicizia necessaria con l’inconscio.
Per provare a coltivare questa amicizia è necessario riconoscere che l’inconscio è innanzitutto un’apertura illimitata alla contingenza dell’esistenza e che il compito etico del soggetto consiste nell’abitare questa apertura anziché provare difensivamente a richiuderla.
È questo un tema di grande attualità. Di fronte alla tendenza securitaria che sembra egemonizzare sia la vita individuale che quella collettiva, sospingendole a preferire il chiuso all’aperto, l’identità alla differenza, la difesa alla possibilità dell’incontro, elogiare l’inconscio significa riabilitare una versione della vita che non è prigioniera della credenza di essere, che non crede al proprio io e che, di conseguenza, non scongiura l’incontro con l’inatteso.