di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore

Stefano allieviLa questione delle richieste di cittadinanza dei discendenti di italiani all’estero è emersa da poco, ma ha radici lontane, che vale la pena ricordare. La legge sulla cittadinanza risale al 1992, e già allora se ne erano messe in evidenza le criticità. Il principio su cui si basa è quello noto come jure sanguinis: chi, nato all’estero, può vantare un antenato italiano, per quanto lontano nel tempo, può ottenere la cittadinanza italiana sulla base di una semplice richiesta documentata.

Al contrario, per chi non ha sangue italiano, qualunque cosa possa significare questa espressione (probabilmente nulla, dal punto di vista tanto biologico quanto culturale), e anche se nato, socializzato e istruito in Italia (cosa che sul piano della vicinanza culturale significa parecchio), conquistare la cittadinanza è una corsa a ostacoli: almeno dieci anni di residenza continuativa in Italia per chi ci è arrivato; e per chi ci è nato, invece, il compimento del diciottesimo anno di età con residenza ininterrotta (ed entro il diciannovesimo, chissà perché: come se un diritto potesse scadere – mentre quello dei discendenti da italiani non decade mai, anche se l’emigrazione risale a centocinquant’anni prima…).

Poiché lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere, e spesso non rispetta le regole che si è dato, significa che un o una giovane nati in Italia possono rischiare di ottenere la cittadinanza a ventidue o ventitré anni, facendo dell’Italia una dei paesi europei in cui è più difficile e complicato ottenerla.

Il capolavoro si è compiuto poi con la legge del 2001 sul voto agli emigranti, fortissimamente voluta dall’allora ministro per gli italiani all’estero Mirko Tremaglia, di Alleanza Nazionale, ma votata per ignavia, come la precedente, dai partiti di tutto l’arco costituzionale: anche da chi sapeva che era una follia ideologica senza alcuna vera motivazione pratica.

Il paradosso che ne è derivato è che chi in Italia ci è nato, ci vive, ci paga le tasse, ne conosce la lingua, fa molta più fatica ad ottenere la cittadinanza di chi qui non ha alcun legame né alcun interesse: e il primo non vota alle politiche, il secondo sì. Nel concreto, il pronipote di un Veneto emigrato in Brasile nel 1870, di cui nessun discendente è mai più rientrato nemmeno come turista, può ottenere la cittadinanza subito, mentre un brasiliano nato in Italia, che non conosce altro paese che questo, deve aspettare il compimento della maggiore età solo per inoltrare la domanda, a meno che un suo genitore non si sposi con un italiano/a.

C’è poi la questione dei motivi: chi chiede la cittadinanza italiana vivendoci, di solito si sente italiano, questa è la sua lingua, la sua patria, il suo orizzonte di lungo periodo. Chi la chiede dall’estero nella grande maggioranza dei casi vuole solo poter viaggiare più comodo, entrare negli USA senza visto, o ottenere la libera circolazione in tutta l’Unione Europea (cosa sulla quale l’UE potrebbe prima o poi eccepire).

Per anni questa è stata solo un’incongruenza politica, con pochi effetti pratici perché le nostre ambasciate e consolati davano seguito alle domande, per usare un eufemismo, con opportuna lentezza. Oggi che qualche precursore, non ottenendo risposte, è riuscito a vedersi riconosciuto il diritto per via giudiziale, è cominciato l’effetto emulazione (al tribunale di Venezia queste cause costituiscono già i due terzi del contenzioso civile, con i costi e i ritardi per le cause ‘autoctone’ che questo implica).

La situazione è quella documentata su queste pagine da numerosi casi veneti: paesi in cui le richieste di cittadinanza dall’estero sono superiori al dieci per cento della popolazione, anagrafi in tilt e minacciate di ricorsi al TAR e risarcimenti, centocinquantamila domande presentate solo in Veneto e solo dal Brasile nell’ultimo anno, pletore di avvocati, consulenti e intermediari che ci campano sopra (c’è sempre business dove lo stato non applica ciò che promette), e il rischio di un effetto valanga con potenziali distorsioni persino della democrazia: con un minimo di organizzazione questi neo-cittadini non residenti potrebbero distorcere il risultato elettorale a loro favore, decidendo sindaci e maggioranze.

Ce ne sarebbe abbastanza per far diventare questa una notizia politica di rilievo nazionale, e pure urgente. Rimane invece, per ora, cronaca locale, derubricata a intoppo burocratico, a problema amministrativo. Come spesso succede, manca il coraggio di affrontare il problema alle radici.