di Marcello Veneziani. Filosofo, giornalista, scrittore. Pubblicato nel blog dell'autore e in Panorama del 25 febbraio 2024.
È stato lui ad armare la mano omicida e suicida, a istigare il ragazzo o a spingere la ragazza all’atto drastico e violento, criminale o autolesionista. È stata la sua derisione, il suo insulto sessista o razzista, il suo sputtanamento, l’immagine intima resa pubblica, la tresca nascosta resa palese. È lui il vero colpevole, il vero mandante. Ma quel lui è un’entità ineffabile, fluida e collettiva, impersonale come il si dice della gente, la chiacchiera, il pettegolezzo di una volta. Quel lui, in sintesi, è il social che sarebbe diventato un’arma impropria, anzi un ordigno esplosivo ed implosivo nelle mani di fragili ragazzi alle prime prese con la vita.
È il social il nuovo capro espiatorio generazionale e universale, l’indiziato principale e più ricorrente nella catena di suicidi o di aggressioni, poi esibite e “postate”; è la cloaca massima in cui si riversano i peggiori miasmi della società e sono convogliate le acque reflue che avvelenano le menti e inquinano i rapporti sociali. Entrando nella vita privata e diventando la finestra della propria solitudine, della propria vanità, del proprio narcisismo, il social sarebbe diventata una formidabile arma di distruzione e autodistruzione di massa, sotto l’aspetto inverso di veicolo prezioso di socializzazione e promozione individuale.
Ma è davvero così? La prima obiezione che di solito si fa è che il mezzo è neutro, dipende dall’uso che se ne fa. Frase facile, di buon senso, ma non del tutto veritiera. Primo, perché i social sono una macchina che per bucare l’attenzione e raccogliere like istiga a esagerare, incattivirsi, additare un bersaglio più che spiegare o promuovere relazioni. La seconda, più generale, è che i mezzi come i social non sono neutri, semmai duttili. Possono cioè essere piegati in direzione positiva o negativa; ma lasciati a se stessi, diventano i nostri padroni, crescono sopra le nostre teste e producono alienazione, automatismo, perdita d’intelligenza, istigazione allo sfogo e alla gogna.
Ma, a saperli usare, i social sono una finestra preziosa, un ponte fino a ieri impensabile, un’apertura al mondo e una grande opportunità. E quando non intervengono arcigni e ottusi algoritmi, o ideologie travestite da algoritmi, sono uno spiraglio di libertà; danno voce al dissenso, altrimenti nascosto nei mass media somministrati dall’alto, le fabbriche dell’opinione pubblica.
Anche quelle che si definiscono fake news nei social, lo sono per metà, perché poi hanno anche un versante positivo: sono le verità taciute, le cose che non si possono dire nei canali ufficiali, ritenute scorrette agli occhi del conformismo woke. Anche sul piano civile e politico, i social svolgono un ruolo di supplenza democratica e di rappresentanza popolare che in parte compensa lo svuotamento della sovranità politica e popolare. Anche qui, il bene e il male s’intrecciano. Per descrivere l’intera parabola, i social allargano, concretizzano, radicalizzano e avvelenano la democrazia. Danno l’impressione ai suoi utenti e cittadini di poter finalmente esercitare lo scettro del sovrano ma poi si allargano al diritto, anzi alla pretesa, di giudicare tutto e tutti, anche ciò che non si è in grado di giudicare e di capire.
I social sono poi un formidabile focolaio e collettore di risentimento, anzi di passaggio dallo scontento privato, individuale, al malcontento pubblico e collettivo. Sono la fabbrica dello scontento, il modo di commutare e incanalare le insoddisfazioni singole in proteste di massa e movimenti di protesta.
Sui social si riversano pure tutte le frustrazioni e le disperazioni di una società narcisista, allevata a confondere i diritti coi desideri, e dunque in lotta continua contro la realtà e il mondo che non si sottomettono ai loro desideri.
Ma non è colpa dei media la fragilità dei ragazzi, la loro estrema vulnerabilità e influenzabilità. Come non è colpa dello specchio se pratichiamo un narcisismo patologico. Uno stupido cazzeggio, un fatuo insulto non può essere la causa di un suicidio o un omicidio, è troppo poco per mutarsi in una decisione così drastica e definitiva; se ciò accade, la principale responsabilità è di chi lo compie, di chi non è capace di metabolizzare, di reagire in modo sensato, di respingere, minimizzare e superare il gossip malevolo.
Non si può ritenere un mandante, o addirittura un assassino chi prende in giro un ragazzo che poi arriva al suicidio. E’ la sua fragilità, il suo scarso, doloroso e perdente rapporto col mondo a spingerlo a così tanto per così poco; va aiutato con la famiglia, la scuola, i media, l’educazione e gli esempi; ma non si può riversare tutto sulla spietatezza criminale dei social e degli altri ed esigere censure e condanne.
Insomma qual è la linea di confine nei social tra bene e male, tra danno e opportunità? Il guaio nasce quando i social non affiancano ma sostituiscono la realtà, cioè le persone, la vita reale, i legami, il mondo, la natura, i corpi, i contatti, la carne e la mente. E’ la sostituzione della realtà il male, abitare in un mondo parallelo e artificiale; quel virtuale che surroga la vita e i rapporti con gli altri.
I social restano una grande finestra sul mondo, una positiva occasione di allargare i propri orizzonti e le proprie relazioni, di esercitare la propria libertà di espressione, se mantengono vivi due requisiti: il senso della realtà e il senso critico. Ossia più aderenza alla vita reale e più distanza critica per saper discernere. Il male, la colpa non è dei social ma di quella duplice mancanza.