a cura di D. Motta e P. Lambruschi. Pubblicato in Avvenire del 5 febbraio 2024.
Un’ora e mezza di confronto, nella sede di Avvenire. Alla presenza del cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, del presidente delle Acli, Emiliano Manfredonia, del sindaco di Prato e responsabile Anci migranti, Matteo Biffoni, del responsabile delle politiche migratorie Flai Cgil, Jean René Bilongo, e del professor Paolo Morozzo Della Rocca. Ecco quanto è emerso sul tema della cittadinanza ai minori stranieri.
In Italia un milione di ragazzi stranieri vive nel limbo. È nato qui da genitori immigrati, è cresciuto e ha studiato nelle nostre scuole, eppure non ha ancora la cittadinanza italiana. Non solo: il tema, che sembrava centrale fino ad almeno un decennio fa, è scomparso dai radar della politica e delle istituzioni. Perché?
Biffoni: Provo a rispondere partendo dal contributo che posso dare come sindaco di una città, Prato, che ha il più alto tasso di cittadini stranieri sul totale della popolazione, oltre il 20%. La legge sulla cittadinanza, così com’è, non ha più senso e non da oggi. Andiamo a fare un giro nelle scuole, dove i nostri figli stanno insieme a bambini con papà e mamma di origine cinese, marocchina, pachistana... Noi li educhiamo, li facciamo studiare qui, chiediamo loro di affezionarsi alle nostre comunità. E cosa restituiamo? Vogliamo che rimangano oggettivamente stranieri in casa nostra? Non ho una ricetta, ma dobbiamo trovare una strada che consenta loro di essere italiani.
Manfredonia: Nella questione immigrazione è entrata troppo la politica, quella che ragiona in base al consenso e ai target elettorali. Come Acli, pensiamo si debba sempre partire dall’ultimo della fila, dai più piccoli. Nel 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, lanciammo una campagna di sensibilizzazione dal titolo “L’Italia sono anch’io”. Quell’idea resta ancora valida, all’epoca raccogliemmo 200mila firme. Lo Ius sanguinis, che è attualmente in vigore, non risponde ai bisogni del tempo.
Biffoni: A questo proposito, c’è un altro aspetto su cui dovremmo soffermarci: è quel che sta accadendo da un anno a questa parte e che Avvenire ha sempre denunciato con grande chiarezza. Arrivano sempre più minori stranieri non accompagnati nel nostro Paese ed è un grande interesse nostro capire da dove vengono, perché e fare il più possibile per integrarli. Invece di essere rafforzato, il sistema dell’accoglienza nei Comuni è lasciato solo a se stesso e si rischia di andare alla deriva. Ci sono ragazzi che si spostano da un posto all’altro, nelle nostre città, in maniera non controllata. Ci sono Comuni che hanno dovuto trasferirli perché non potevano farsene carico: mancano risorse e posti letto. Mi chiedo però: possono 25mila minori stranieri non accompagnati mettere in crisi un Paese di 60 milioni di abitanti?
Morozzo Della Rocca: Credo che si debba innanzitutto fare una distinzione, un confronto agonico tra buona accoglienza e cattiva accoglienza. Dalla legge Zampa, che ha rappresentato un’ottima costruzione normativa, abbiamo imboccato una direzione all’insegna del pessimismo. Se penso, come consulente legale e volontario della Comunità di Sant’Egidio, a tanti ex minori stranieri che poi ritrovo nei loro percorsi all’interno dei centri di rimpatrio, mi chiedo: perché sono finiti qui? Dove abbiamo sbagliato? Nel 90% dei casi, gli ospiti di queste strutture vengono dalle carceri. Sono storie di cattiva accoglienza, cui dobbiamo rimediare, perché la cattiva accoglienza porta poi alla devianza. I minori stranieri non accompagnati non possono essere un pericolo, ma una risorsa. Vedete che si pone già un’alleanza tra soggetti di confine? Lo Stato, il territorio, le agenzie educative, tra cui la famiglia.
Resta il fatto che il contesto in cui ci muoviamo rimane per molti versi ostile alle seconde e terze generazioni di migranti. Non siamo nella situazione delle banlieue francesi, ma razzismo e discriminazioni sono tutt’altro che messi al bando, anche nel discorso pubblico. Cosa racconta la vostra esperienza di vita?
Bilongo: Attenti al razzismo, al Paese ostile. Occorre una grande operazione di equità, uno “Ius” del buon senso. Un diritto secondo equità e giustizia. È vero, non abbiamo le periferie francesi, ma il razzismo resta il nostro grande convitato di pietra. Bisogna uscire dalla logica dell’uomo di colore, come si dice comunemente. Vedete, vengo da terre come la Campania, in cui tanti minori stranieri non accompagnati sfuggono al controllo dei sindaci e della comunità: non sappiamo poi dove si va a finire. Grazie allora alle vostre denunce, alle inchieste che con i vostri servizi avete sollecitato su drammi come lo sfruttamento e il caporalato… Forse non ci crederete, ma io ho la cittadinanza italiana solo da quattro mesi, dopo un iter lungo 25 anni. Mi chiedete com’è stato possibile? La cittadinanza italiana alla fine arriva dopo tanti anni, dopo il passaggio in tanti uffici diversi, con un iter sempre più complicato che va dal Comune al ministero dell’Interno. Ci sono sempre troppi pareri, dati con poca puntualità da chi di dovere.
Morozzo Della Rocca: La cittadinanza ai ragazzi stranieri è questione di interesse nazionale. Prendiamo la Francia, che è accusata spesso a ragione di assimilazionismo, perché ha imposto regole comuni non condivise in particolare nella sfera pubblica. È vero, ha fatto anche errori storici come la creazione di colossali ghetti, però poi sul tema della cittadinanza si è dimostrata avanti anni luce: gli stranieri soli si prendono la cittadinanza automatica a 18 anni, che si abbassano a 16 anni se a chiederla sono gli stessi genitori stranieri. A Parigi bastano 5 anni anche non continuativi per avere i requisiti e le regole sono state condivise da governi di tutti i colori, di destra, di centro e di sinistra. In Francia il minore affidato ai servizi sociali prende la cittadinanza con la maggiore età. È o no una scelta di civiltà? Ripeto, si tratta di ragionare con la logica del buon governo: serve un laboratorio di riforma.
Bilongo: Per questo bisogna porre il tema con una certa forza: dobbiamo essere convinti e convincenti, rispetto a chi ha ritrosia. Non nascondiamocelo: fino a una decina di anni fa, diciamo da prima dei fatti del “Bataclan” di Parigi, la percentuale degli italiani favorevoli a Ius soli e Ius culturae era molto più alta. Adesso, nel dibattito pubblico stiamo purtroppo coltivando sentimenti di repulsione. Ma anche tra le seconde generazioni ascoltiamo discorsi d’odio: tante persone oggi identificano l’Italia nel Paese che rimanda indietro lo straniero senza motivo perché parlano, pensano e scrivono in italiano, hanno una identità italiana o sospesa tra un Paese di origine della famiglia e quello in cui sono cresciuti. Eppure tutto questo non basta per essere italiani.
Morozzo Della Rocca: Non è solo un problema della politica, però. Noi vediamo una tendenza sempre più marcata da parte della burocrazia a irrigidirsi dilatando i tempi e rendendo più difficile l’accesso alla cittadinanza.
Se nelle comunità il sentimento di diffidenza è ancora radicato, lo Stato ha delle responsabilità anche nella gestione della macchina organizzativa: tempi lunghi per le pratiche, soggetti e interlocutori che spesso si rimpallano le responsabilità, cavilli pensati più per mettere in difficoltà le persone, che per agevolare i loro percorsi in un contesto nuovo. Come si può ovviare a queste mancanze?
Biffoni: Hanno ragione Bilongo e Morozzo a chiedere tempi veloci e un’amministrazione pubblica all’altezza. Dal 2012 abbiamo fatto presente in tutte le sedi possibili che le competenze sui permessi di soggiorno, per i rinnovi, devono essere affidate agli uffici dei Comuni. Un sindaco sa chi c’è e chi non c’è sui territori, chi davvero rispetta il requisito della residenzialità oppure no. Ho detto: fateci sperimentare questi percorsi nei nostri uffici... Una città come Prato ha tutto l’interesse ad agevolare queste pratiche, avendo la più grande comunità cinese d’Italia al proprio interno.
Manfredonia: C’è una tendenza dell’amministrazione a esasperare le chiusure della legge. Tutto questo conferma che esiste un problema culturale da affrontare il più presto possibile. Una volta una dirigente scolastica mi ha detto: ma non è che se poi diamo la cittadinanza a questo ragazzo, poi la famiglia se ne approfitta? Viene prima la paura rispetto alla prospettiva di un’opportunità offerta. Ma l’immigrazione è un toccasana anche per l’economia e le casse dello Stato: 4 milioni di cittadini stranieri fanno la dichiarazione dei redditi e pagano 9,6 miliardi di tasse. Il 12% delle imprese è nato da investimenti di cittadini stranieri, che possono contare anche su manodopera più giovane della nostra, mentre alle nostre aziende mancano 200mila lavoratori specializzati. C’è un problema nella comunicazione, colpa della politica che semplifica troppo. Fa più effetto il tema securitario, perché richiama sentimenti identitari in grado di far presa sulla maggioranza della gente.
Eminenza, tocca a lei tirare le conclusioni di questo nostro confronto. L’impressione è che la società civile stia vivendo dinamiche e problemi che la pongono più avanti rispetto al lavoro delle istituzioni, le quali appaiono a loro volta lente e piene di pregiudizi nel ragionare su questi scenari. La Chiesa italiana, con il progetto “Apri”, che evoca i quattro verbi usati da papa Francesco “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, ha aperto da tempo un cantiere di cittadinanza avanzato. Da dove si può partire per imprimere una svolta?
Lojudice: Partiamo come sempre dal dato di realtà. Nella nostra città in questi giorni riscriveremo la Carta di Siena che fu pensata e realizzata proprio 10 anni fa dalla Commissione Migrantes Toscana, dall’Università per Stranieri di Siena e dal Centro Giorgio La Pira per provare a capire i cambiamenti culturali legati alle migrazioni. Dobbiamo tutti, a mio parere, assumerci l’impegno di dare voce alle nuove generazioni dei migranti per aiutare un’opinione pubblica abituata al chiacchiericcio a fare un salto di qualità. È necessario passare dalla migrazione come emergenza alla migrazione come fenomeno strutturale. Prendiamo atto di una realtà che è ampia e ha tanti volti: sono i numeri stessi a smentire le teorie su presunte invasioni o islamizzazioni della società. La verità è che proprio noi stiamo perdendo la nostra identità: è infatti proprio dell’identità cattolica essere universale, non porsi alcun confine che non sia quello del mondo. Se uno smentisce questo carattere universale, poi inizia ad avere paura, non si sa bene di cosa. Un cattolico non può che essere lievito nella pasta e questo vale anche per la comunicazione. Serve un pensiero lucido, oggettivo, né partitico né confessionale. Così si può dare un grande contributo all’opinione pubblica e ai legislatori.
adattamento e sintesi di Alessandro Bruni
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