di Alessandro Bruni. Biologo farmaceutico e cultore di scienze cognitive.
La lettura del libro “Vivere con la morte” di Daniel Marguerat (Claudiana, 2023) fa sorgere molte riflessioni sul significato della morte il cui mistero si perpetua. Fino a non molti anni fa, quando qualcuno moriva, i congiunti erano contenti se potevano dire: “grazie a Dio, ha avuto il tempo di prepararsi”. Adesso, ci si tranquillizza dicendo: “per fortuna, non si è reso conto di niente”.
Oggi non si muore più semplicemente, si muore “di qualcosa”. Nell’apprendere la morte di una persona conosciuta, ci domandiamo di che cosa è morto? E ci persuadiamo che il suo cuore, il suo stress o le sue sigarette ne sono responsabili: ne concludiamo che la sua morte è in qualche modo opera sua e che noi siamo immuni da quelle debolezze. Truccata da malattia, fatta risalire a cause, la morte viene elusa e scacciata scaramanticamente dai nostri pensieri.
La società contemporanea nasconde la morte, si riducono le cerimonie e si riducono le tombe come luogo di memoria affidandosi alla cremazione. Prima il decesso era una grande cerimonia pubblica e la peggiore delle morti era quella improvvisa alla quale il defunto non era preparato. La migliore era quella dell’uomo sazio dei suoi giorni ed era accolta come la fine del cammino, mentre la morte improvvisa, repentina o prematura, era sentita come un’ingiustizia o un castigo di Dio.
Oggi accade il contrario. Nella lenta discesa verso la decadenza fisica e mentale, la morte ordinaria ripugna e la morte improvvisa affascina. La “più bella delle morti” è quella di cui non ci si accorge, il non “vedersi” morire viene considerato una grazia. La morte per vecchiaia è scacciata come un fatto osceno e indesiderabile al quale opporsi con tutti i mezzi. Un’altra morte si affaccia, riempiendo la nostra attualità, è la morte straordinaria, la morte violenta degli incidenti stradali, delle guerre, degli omicidi, delle malattie. Ma è sempre la morte degli altri.
Per ogni persona, non è più la morte a spaventare, quanto il lento passaggio del morire, quel lungo decorso durante il quale l’essere si debilita indefinitamente sino all’annullamento di ogni dignità nella sofferenza fisica e psichica. Soffrire per morire è diventata una cosa orrenda a cui abbiamo posto rimedio con le cure palliative e con il confinamento negli hospice. Eppure tutti lo sappiamo, visitando i nostri cari “amorevolmente” confinati in RSA, oggi si muore sempre più spesso stanchi della vita, stanchi di una sopravvivenza senza scopo, stanchi dell’essere peso sociale e familiare.
Un popolo di grandi anziani “non visibili”, corporalmente vivi, ma spenti in malattie neurodegenerative di lungo corso, scollegati dal mondo, dagli affetti, immersi in una nebbia di ricordi scomposti e confusi senza alcuna dignità in una persa identità personale, ridotti a guscio corporeo vuoto come conchiglie spiaggiate. Ci si chiede se possiamo considerare “vive” le persone annegate nel profondo dell’Alzheimer; se il morire è un destino che non ci appartiene o se invece è un evento che deve appartenere alla nostra cosciente discrezionalità.
Cosa oggi caratterizza il nostro rapporto con la morte? Due fatti emergono: il primo è il silenzio della morte ordinaria e il dispiegarsi della morte violenta che riempie la nostra attualità. Le cronache di violenza privata e delle guerre vissute sui media emarginano il senso del morire a evento che riguarda altri e che non ci appartiene intimamente. Il clamore di morti lontane immunizza la paura della nostra morte silenziandola a evento da oscurare; il secondo è l’angoscia inconscia della morte non formulata, che favorisce a poco a poco il sorgere della violenza, dell’odio, una rabbia esistenziale che porta al disprezzo della vita stessa.
Non da oggi parlare della propria morte è un tabù. E come ogni tabù agisce sull'inconscio e determina agiti personali ed agiti non razionali. Come spiegare altrimenti il ritardo ad una legge sul fine vita da parte del parlamento italiano? Eppure nel nostro intimo sappiamo che di fronte ad una vita resa disumana dalla malattia, ciascuno vorrebbe vedere riconosciuto il diritto di salvaguardia della sua dignità.
Bisogna morire e noi abbiamo perduto, almeno in parte, quelle consolazioni che accompagnavano il morire sin dal profondo dei secoli. Accettato da alcuni, rigettato da altri, il mistero della morte è giustificato dalla promessa di una vita dopo la morte: la resurrezione in occidente e la reincarnazione in oriente. Due speranze, due promesse, che oggi solo debolmente danno ragione della nostra morte, tanto che ad essa continuiamo ad opporre rimedi che prolunghino la vita, cercando di comprendere i meccanismi della morte cellulare programmata e i meccanismi della immortalità di altre cellule, cercando di frenare il decadimento biologico, per ora con ben scarsi risultati volti ad un prolungamento della quarta età, più che ad un prolungamento dell’età attiva.
Paradossalmente stiamo cercando di correggere “l’errore di Dio” che ci tolse l’immortalità rincorrendo il mito della longevità e riducendo le nascite, favorendo chi già c’è e limitando chi dovrebbe venire, favorendo gli individui e condannando la società.
E’ giusto tutto questo? E se Dio avesse ragione a lasciarci nel mistero dandoci solo la speranza di una vita dopo la morte? Oppure, perché cerchiamo di trovare risposte impossibili tra le stelle invece di accontentarci di quel piccolo focolare che riusciamo ad accendere? Anche questo rimane un mistero che non è nell'udire il sibilo delle lontane galassie, ma nell’udire il vicino primo vagito.
A proposito di fine vita. Di Anna Montesano. Pubblicato in Il sussidiario.net del 5 marzo 2024. Margherita Hack, la celebre astrofisica italiana, è morta il 29 giugno 2013 all’età di 91 anni. Aveva deciso di non farsi operare al cuore nonostante i problemi cardiaci fossero sempre più importanti. Spiegò così la decisione presa: “Preferisco così, volevo stare in pace, inutile campare cinque anni di più male, meglio stare a casa con il mio lavoro e i miei animali”. Inoltre spiegò: “L’intervento poteva essere risolutivo, ma presentava anche dei rischi: l’idea mi è venuta di notte, semplicemente. Mi sono resa conto che in ospedale mi mancavano la mia attività, mio marito, i miei animali e tutte quelle comodità, privacy compresa, che in ospedale non ci sono. Una vita a metà. Qui a casa, magari al rallentatore, ma faccio le cose normali. E allora, ho pensato: un’operazione a rischio, un’altra degenza e poi una lunga convalescenza? No, come va va. Meglio un giorno da leoni”. Così concluse decisa: “La morte non mi fa paura, la perdita dell’autosufficienza sì”.