di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 24 marzo 2024.
Le migrazioni sono come i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione delle strade o del verde pubblico: un dato strutturale della società. Come tale, e come ogni elemento che impatta sulla vita collettiva, va gestito, governato: bisogna, insomma, occuparsene. Se non lo si fa, lo capiamo tutti, è un disastro.
Se nessuno programmasse gli orari degli autobus, le prenotazioni delle visite e la gestione del pronto soccorso, gli spazi di mercato e il rilascio delle licenze, la costruzione e la gestione delle scuole, l’aiuto ai disabili o alle vittime di violenza, il rattoppo delle buche e lo sfalcio dell’erba, sarebbe il caos: e infatti, quando non funzionano, ce ne accorgiamo eccome, delle conseguenze, e protestiamo. Mentre, se governati, tutti questi fenomeni, tutti questi processi, sono un aiuto fondamentale per la nostra vita: non un problema, ma una soluzione a un problema. E infatti questo chiediamo a chi ci rappresenta, dai sindaci alle regioni fino al governo nazionale. E questo la politica dovrebbe fare.
Invece, quando si tratta di migrazioni, ci limitiamo a essere “contro”: che è come essere contro i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione, e già che ci siamo anche il maltempo. Nessuno vuole occuparsene: né i sindaci, che infatti, in grandissima maggioranza, evitano accuratamente di farlo, e spesso strumentalizzano i migranti come capro espiatorio di problemi di cui sono la conseguenza e non la causa; né la regione, che non dà indicazioni e non ha alcuna cabina di regia, né per l’accoglienza né per l’integrazione (e quando si è mossa, l’ha fatto più per ostacolare l’integrazione che per gestirla: dalle leggi “prima i veneti” a quelle contro le moschee); mentre il governo è obbligato a farlo, ma lo fa nella stessa logica, cercando di limitare gli arrivi ma senza governarne le conseguenze, con provvedimenti spot e in qualche modo emergenziali anziché con un strategia di lungo periodo. Con il risultato paradossale di ottenere precisamente quello che tutti a parole dicono di voler evitare: il caos.
È un corto circuito che ci coinvolge tutti, non solo chi ci governa, perché i primi complici sono i cittadini e gli elettori. Tu, cittadino, sei contro gli immigrati, quindi dai il voto a chi te lo chiede per lo stesso motivo; una volta eletto questi non farà nulla per risolvere problemi che gli garantiscono una facile rendita elettorale, e dopo tutto rispondono al mandato ricevuto: e così i problemi si incancreniscono, nella comoda complicità di tutti, perché di ogni problema è più facile non occuparsene, ancora meglio se legittimati da qualche semplice slogan ideologico, che tirarsi su le maniche e affrontarli.
Dopodiché tutti quanti vogliamo mangiare al prezzo minore possibile il cibo raccolto dagli immigrati, beviamo il (e ci arricchiamo con) il vino vendemmiato da loro, abitiamo nelle case costruite da loro (che poi ci rifiutiamo di dar loro in affitto) e da loro pulite, acquistiamo merci movimentate da loro (dal carico e scarico in magazzino al camioncino che le consegna fino alla bancarella in piazza), ci vantiamo di record turistici che senza il loro lavoro in hotel e ristoranti non raggiungeremmo mai, affidiamo loro i nostri anziani non autosufficienti, i nostri malati e i nostri bambini perché se ne prendano cura, e nemmeno ci accorgiamo che sono una quota sempre più rilevante di coloro che, come operai, producono le merci che vendiamo, utilizziamo ed esportiamo – e sono nostri clienti come consumatori. Ma siamo “contro”, e quindi non gestiamo il fenomeno, e ci laviamo la coscienza con quello. Possiamo dire che è una intollerabile ipocrisia? Che chiedere il voto, e darlo, per questa ragione è un’impostura, e per giunta una truffa che ci autoinfliggiamo, facendo del male a noi stessi oltre che a loro?
Non c’è esempio migliore che quello dell’accoglienza per dimostrarlo. Non apriamo canali regolari di ingresso, e quindi arrivano irregolarmente e chiedono asilo. Il governo li ridistribuisce sul territorio, ma i comuni, con il sostegno masochistico dei loro cittadini, che sono “contro”, non attivano i SAI (che sono protocolli per l’accoglienza gestiti dalle amministrazioni, con la collaborazione del privato-sociale), e quindi le prefetture finanziano i CAS (centri di accoglienza straordinaria, a scopo di lucro), i cui bandi peraltro spesso finiscono per andare deserti perché offrono cifre ridicolmente basse, e con gli ultimi decreti approvati dal governo escludono esplicitamente proprio le attività che favoriscono l’integrazione, a partire dall’insegnamento dell’italiano. Risultato? L’integrazione funziona male (o funziona comunque, ma con più difficoltà e maggiori costi umani e materiali; e non grazie alla politica, ma nonostante essa), e il ciclo ricomincia. Fino a quando andremo avanti con questa assurda pantomima?