di Daria Bignardi. Pubblicato in Linkiesta del 28 marzo 2024.
Ogni istituto penitenziario è un microcosmo a sé, ognuno con le sue regole, come se fossero isole separate e distanti tra loro. Lo spiega Daria Bignardi nel suo “Ogni prigione è un’isola”, in libreria per Mondadori
«Il carcere è la cosa più stupida che esista» mi ha detto Michele.
Fa l’ispettore di polizia penitenziaria. L’ho incontrato un giorno di primavera profumato di viburno davanti a un bar a pochi chilometri dall’“istituto”.
Non ha l’autorizzazione per parlarmi, ma il suo comandante garantisce per me. Sono consapevole che il comandante ha scelto di farmi parlare con uno di quelli bravi, ma non mi aspettavo un esordio così radicale.
Bevendo un caffè, Michele racconta di essere lucano e di lavorare nella polizia penitenziaria da trent’anni. «Dopo il servizio militare ho tentato il concorso perché cercavo un posto fisso, come facciamo noi terroni» dice ridacchiando. Poi aggiunge: «Mio padre faceva il contadino, era comunista, aveva la quinta elementare».
«Suo padre era contento quando ha iniziato a fare l’agente di polizia?» chiedo.
E lui: «Era un comunista vero, aveva il senso dello Stato, certo che era contento. Sa che l’ho visto piangere per la prima volta quando avevo undici anni, il giorno che è morto Berlinguer?».
Non chiedo se è anche lui di sinistra. Riuscire ad avere quest’incontro è stato complicato: molti agenti di polizia penitenziaria sono comprensibilmente diffidenti. Tante persone hanno pregiudizi nei loro confronti: pensano che siano ignoranti, violenti e che facciano un lavoro bruttissimo. In alcuni casi hanno ragione. Quando Michele dice: «Io servo lo Stato», però, insisto: «Ma non ha detto che il carcere è una cosa stupida? Perché lavorarci, se non per il posto fisso?».
E lui: «Finché esiste, qualcuno se ne deve occupare».
Michele dice di avere cinquantatré anni, ma ne dimostra molti di meno. Mi fa vedere la foto di due gemelle bionde: «Ho fatto i figli dopo i cinquanta» spiega.
L’accento di Matera mi ricorda quello di un mio vecchio professore di matematica, e glielo dico.
«Io ho preso il diploma da geometra» risponde, «ma non capivo niente di calcoli.»
«E poi?»
«Dopo il militare ho vinto il concorso e mi hanno mandato qui. A quei tempi i primi periodi ti mettevano di sentinella anche per otto ore di seguito, non capivo nemmeno dov’ero. È stata dura. Poi ho cominciato a capire. Ho preso la tessera del sindacato, ma i sindacati facevano togliere me dalla sentinella per metterci altri, mica facevano lotte per tutti, e non mi sembrava giusto. Un po’ alla volta ho capito cosa avevo intorno: cinque anni, ci ho messo. Ho visto colleghi che facevano i duri per darsi un contegno, per timidezza, per paura, perché “si è sempre fatto così”. E altri, troppo buoni, che si caricavano tutti i problemi dei detenuti addosso e finivano con l’esaurimento nervoso. Ho capito che per dare un senso a questo lavoro dovevo farlo meglio che potevo, e che per farlo bene dovevo trovare una via di mezzo tra essere troppo distaccato ed essere troppo coinvolto.
Ho studiato criminologia e partecipato a corsi di aggiornamento: da agente ho fatto tutto l’iter e ora sono ispettore responsabile di centinaia di detenuti e centinaia di agenti. Insegno. Li butto fuori dalla caserma, quando hanno finito i turni: “Non state in branda a spippolare sul telefono, fate una passeggiata, fate sport”. Questo lavoro può essere devastante: in carcere si soffre, e la sofferenza ti resta attaccata, se non sai proteggerti. Molti agenti in carcere ci vivono perché dormono in caserma. Gli affitti sono troppo costosi, molti sono di giù e all’inizio sperano di tornarci, a meno che non si sposino con qualcuno di su. Ogni tanto succede e alcuni giù non ci tornano, fanno famiglia al Nord, come me.»
Michele sembra molto a contatto con la realtà “di fuori”, e glielo faccio notare. Risponde che il carcere è un avamposto dove le cose succedono velocemente e prima, come penso anch’io.
Non gli chiedo se i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere si verificano anche nel suo istituto, ma mentre ci salutiamo dice: «Si ricordi che ogni istituto è uno Stato a parte, è come un’isola».
Anche Antonio, che dà il cambio a Michele al tavolino del bar, è una persona brillante. Ha l’età di Michele, ma la dimostra. Alto, stempiato, viso aperto e terrigno che contrasta con la montatura degli occhiali da architetto milanese. È all’“istituto” da più di vent’anni, anche lui ha iniziato a fare l’agente per caso, per il posto fisso, dopo il militare, e pensa che «ogni istituto fa un po’ a modo suo».
Ripete due o tre volte, in occasioni diverse, a proposito dei detenuti ma anche dei suoi agenti, l’espressione “diventare uomini”, guardandomi un po’ di traverso per vedere se gli faccio la paternale per quel concetto sessista. Non gliela faccio, ma dal momento che ha un atteggiamento più duro del suo collega gli chiedo come pensa che siano morti i tredici detenuti di Modena.
Si toglie gli occhiali e li appoggia sul tavolo.
«Intendiamoci» risponde, «i medici che lavorano in carcere non sono la crema dei medici, ma lì era pieno di disgraziati drogatissimi che hanno assalito le scorte e hanno distrutto tutto. Gente che entra col cervello già bruciato dai cristalli di coca, dall’Mdma, dalle droghe chimiche: sa quanti ne vedo continuamente? Gente che pensa solo alla terapia, che vive per quello.»
«Quindi crede siano morti tutti di overdose?» dico.
«Perché no?» risponde, rimettendosi gli occhiali e facendo il gesto di alzarsi.
«E del 41 bis cosa pensa?» chiedo, intuendo che il mio tempo è finito.
«Che è anacronistico. E poi, se i detenuti vogliono far sapere qualcosa a quelli di fuori, possono dirla all’avvocato, quindi oltretutto è anche inutile. Adesso devo lasciarla.»