intervista a Umberto Galimberti, a cura di Simonetta Sciandivasci. Pubblicato in Alzogliocchiversoilcielo e in La Stampa del 21 marzo 2024.
Il 2024 è un anno elettorale. Il più elettorale di sempre: si vota in 76 Paesi, 2 miliardi di persone sono chiamate a esprimersi. Sarebbe un trionfo della democrazia se non fosse che in 28 di quei 76 Paesi non ci sono elezioni libere, a meno che non la si pensi come il ministro Salvini, secondo il quale in Russia «han votato e quindi quando un popolo vota ha sempre ragione ovunque voti».
Se non fosse che anche laddove le elezioni sono libere, l’astensionismo cresce e si irrobustisce. Se non fosse, sopratutto, che il dialogo è diventato complicato, guerresco, difficile: viene bandito, evitato, contestato, zittito, anche nei posti che ne sono la casa. Le università. Le piazze. I parlamenti. Da una parte si polarizzano le posizioni, dall’altra si radicalizza le lotte: chi non è mai stato ascoltato, non è più disposto a chiedere permesso, ad aspettare un invito, a mettersi in fila.
Franco Cardini ha scritto ieri su La Stampa che siamo incastrati in un vecchio, irrisolvibile problema: «Non esiste libertà senza confini; e negare questi significa, in realtà, negare quella». Un problema che è l’essenza della democrazia e, insieme, la ragione della sua imperfezione congenita. Un’imperfezione sempre meno tollerata. Non c’è spazio per la domanda: si cerca la risposta. Non c’è tempo per la valutazione: si vuole la soluzione. Si cerca (e si trova) l’autocrate.
Professor Galimberti, nel suo ultimo libro per ragazzi, Le grandi domande, scrive che le domande sono più importanti delle risposte. Ma senza risposte ci si smarrisce.
«Falso! Le risposte chiudono la mente, esattamente come le diagnosi e le ricette: la gente vuole risposte e diagnosi così sta tranquilla e sa dove sta, può spegnere il cervello Punto. Invece la domanda tiene la mente inquieta».
E non ne abbiamo abbastanza di inquietudine?
«Ma vede, le domande diventano inquietanti in modo doloroso e nocivo quando sono mal formulate. Cosa diceva Oscar Wilde? Se hai la risposta a tutte le tue domande, vuole dire che non erano quelle giuste».
Quando una domanda è ben formulata?
«Capirlo è il lavoro del filosofo. Che deve insegnare la filosofia, certo. Ma la filosofia è nata in piazza, ad Atene, dove Socrate radunava i suoi allievi, e discuteva con loro un tema. E diceva: non ho niente da insegnare. E infatti si definiva il filosofo della dotta ignoranza. Ha sempre spiegato che il suo ruolo era capire se le opinioni dei suoi allievi erano ben argomentate o se dipendevano solo da quello che avevano sentito dire, dagli effetti retorici che persuadevano la loro mente senza fondamento. Io non ho mai risposto a una domanda, in decenni di carriera: ho solo riformulato le domande che mi venivano poste. Perché la filosofia non risponde, non sa niente ma ti obbliga a mettere alla prova le idee che hai in testa, a capire perché le hai, se sono tue, se le hai ereditate, se le sai criticare e se resistono alla critica, cioè al giudizio. Oggi questo esercizio sarebbe particolarmente utile dal momento che in una società complessa come la nostra, non è sufficiente aderire al primo deficiente che ti abbindola con uno slogan».
Eppure lo facciamo.
«Eppure lo facciamo».
Non crede che non farlo richiede una fatica che quasi nessuno è più disposto a fare? Forse non ci siamo innamorati del fascismo: forse ci siamo solo impigriti.
«Certo, la libertà è faticosissima. E la democrazia è difficile da tenere in piedi. Lo stesso Platone che l’ha inventata diceva che il popolo per decidere deve sapere, deve essere informato, quindi deve avere una parte attiva, deve rispondere all’educazione, alla paideia. Il punto è che a scuola nessuno insegna più che il sapere e il metodo scientifico si nutrono di dubbi, non sono infallibili, e così tutti si aspettano che uno scienziato dia solo certezze: non appena vacilla, si approfitta per deriderlo e delegittimarlo. Lo abbiamo visto durante il Covid, ed è stato il momento in cui mi sono reso conto più tragicamente della vittoria inesorabile dell’incompetenza. Anziché la risposta dei virologi, lunga e complessa e sempre discutibile, si preferiva quella degli influencer. E per influencer non intendo Chiara Ferragni, ma Matteo Salvini».
Perché?
«Perché Matteo Salvini incarna il meccanismo perfetto dei social network: lo sfogo viscerale, istintivo. Quello che è tipico negli adolescenti, che sviluppano i lobi della razionalità non prima dei vent’anni».
Ed è per irrazionalità che gli studenti impediscono di parlare di Israele nelle università?
«Israele ha subìto un attacco inaccettabile il 7 ottobre, ma i palestinesi dal 1948 vivono in una sorta di lager. E allora le cose bisogna dirle e raccontarle tutte e due. I ragazzi si ribellano perché contestano una sproporzione nel racconto e nella rappresentazione. Nel quarto capitolo della Genesi, c’è un discendente di Caino, Lamech, che raduna le sue mogli e dice loro: un uomo mi ha insultato e io l’ho ucciso, un ragazzo mi ha deriso e l’ho ucciso, se dovessero uccidermi, Caino è stato vendicato 7 volte, se uccidono Lamech dovete vendicarli 70 volte 7. Ecco, rispetto alla Palestina, mi sembra che la sproporzione si di un’entità simile».
Non trova che impedire a qualcuno di parlare in università sia un atto di intolleranza non giustificabile?
«La tolleranza consiste nel sapere stare di fronte all’avversario, non solo nel farlo parlare. Il dialogo non si basa sul consenso tra due persone: il dialogo è la massima distanza tra due pareri. Tutte le parole che cominciano per dia in greco segnalano la massima distanza. Diavolo è massima distanza da dio. La tolleranza è possibile solo se io mi dispongo ad ascoltare il mio avversario. Solo se sono convinto che possa allargare la mia visione del mondo».
E questo implica una consapevolezza precisa?
«Certo: sapere che la propria visione del mondo è limitata, povera, ristretta».
Un po’ retorico.
«Certo. Perché non siamo capaci di vedere che questa è la base dell’amore. Perché ci innamoriamo di un altro, se non per cambiare idea, sguardo, tutto?».
Ci innamoriamo per non soffrire.
«Falso!».
Però che non vogliamo soffrire è vero.
«Ma è impossibile».
Lei ricorda Eschilo: «Solo il vero sapere ha potenza sul dolore». Non era che più sai e più soffri?
«No, il sapere ha potere sul dolore in un’altra accezione. Se a scuola si insegnasse bene la letteratura, e anziché di pc si riempissero le aule di romanzi, tutti saprebbero che cos’è l’amore, e come sopportare l’angoscia che crea».
Lei scrive che la verità è una cosa che «sta in piedi da sola». Ma l’incontro con l’altro non rischia di farla crollare? Non è proprio d questo che scappiamo, quando scappiamo dal confronto?
«No, la verità non crolla per niente. La verità è la capacità di negare tutte le sue negazioni. Cercare la verità significa controbattere a tutte le sue negazioni. Se non lo faccio, resto nella mia certezza e nella mia opinione».
Quale è una verità di cui è certo?
«Io sono greco. E la sola cosa di cui sono assolutamente certo è che dobbiamo morire. E questa consapevolezza crea un’etica fantastica, che è l’etica del limite. Vuoi essere felice? Realizza te stesso. Il tuo demone. Il tuo demone è la tua virtù la tua qualità».
Esiste una differenza tra egoismo e individualismo?
«Due cose orrende derivate dal cristianesimo».
Orrende tutte e due allo stesso modo?
«Sì. Il cristianesimo ha stabilito che la cosa più importante è la salvezza dell’anima, che è individuale, non collettiva, giusto? E così ha stabilito il primato dell’individuo sulla società. I cristiani non sono buoni cittadini: possono esserlo di fatto ma non di principio. Aristotele diceva invece che chi entra in una comunità e pensa di poter fare a meno degli altri non è un uomo: o è bestia o è dio».
Meglio comunità o società?
«Polis greca. L’identità ce la dà il riconoscimento degli altri».
Il ministro Lollobrigida ha detto che non mettere un limite alle proteste, ha portato al terrorismo.
«Errore fondamentale. Se limiti la libertà di espressione dei ragazzi poi non devi lamentarti se non parlano più con gli adulti».
E il limite alla libertà d’espressione degli adulti?
«Ma uno può dire tutte le castronerie che vuole, il punto è farle cadere, quelle castronerie: noi, invece, le valorizziamo, le discutiamo, le svisceriamo».
Scrive che la politica è l’arte di saper scegliere cosa fare e perché.
«La nostra politica non lo sa fare».
I filosofi potrebbero dare una mano, no?
«Questo era il sogno di Platone che però quando andò a parlare con il tiranno di Siracusa, Dionigi, fu da lui messo in galera per vent’anni!».