di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 24 aprile 2024.
Sappiamo che è difficile non condividere tutte le leggi “prima noi”: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatoria. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamenti sono così popolari. Sappiamo anche la questione è più simbolica che sostanziale: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discriminazione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazione del ragionamento?
Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiva. Immaginiamo di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabiniere, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o semplicemente perché ci innamoriamo di un posto – e pronti a contribuire al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considereremmo “giusto”? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considereremmo un regolamento di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore, o devono mettersi in coda dopo gli altri, quelli arrivati per ultimi?
Parliamo di servizi fondamentali: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio “all’inizio” (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, semplicemente perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiamo che si tratta di un disincentivo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversificate e di fatto discriminatorie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografico e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazione delle primissime leggi “prima i veneti” i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenienti da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare (o comunque non ce ne sono abbastanza): è questo il nostro benvenuto?
Qualcuno, per giustificare queste norme, parla di meritocrazia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha “meritato” di essere nato casualmente in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: “tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui – non perché sei migliore – hai più diritti di altri”. L’opposto esatto della meritocrazia.
Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzione, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatamente agli immigrati, e in particolare a quelli extra-europei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero “troppe” domande in qualche modo illecite o ingiustificate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamento, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo.
Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è semplicemente antistorico: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e sempre più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzazione è inesorabile (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazione mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interamente urbanizzato): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamente a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…