di Stefano Allievi. Sociologo del mutamento culturale. Pubblicato nel blog dell'autore il 11 aprile 2024.
Ieri si è festeggiato l’Aid al-Fitr, la festa di fine Ramadan. Per i musulmani è un po’ come il Natale: oltre alla festa religiosa, che è anche un importante momento di socialità per la comunità, ci si ritrova con le famiglie allargate, si preparano piatti speciali, si fanno doni ai bambini. Ed è molto sentito, non foss’altro perché arriva alla conclusione di un mese di digiuno – reale, nonostante le ironie di qualcuno – dall’alba al tramonto. Se spiritualmente ciò che caratterizza il Ramadan è precisamente il digiuno – raccomandato peraltro, come pratica ascetica, in molte religioni – sociologicamente ciò che lo caratterizza è la sua rottura (con l’iftar, un momento conviviale in cui si mangia qualcosa insieme, celebrato quando possibile in famiglia o in moschea), e anche il desiderio di vedere riconosciuta pubblicamente la propria identità sociale, celebrandolo in luoghi pubblici sufficientemente ampi da contenere un afflusso maggiore di quello abituale, e invitando le autorità civili e religiose.
A testimoniare il ruolo sociale del Ramadan è anche il fatto che, nonostante la secolarizzazione operi anche nelle seconde generazioni musulmane (e già nelle prime), cala la frequentazione delle moschee, la preghiera quotidiana, la lettura del Corano, ma non, o molto poco, il rispetto del digiuno. È anche un mese in cui – come si fa anche nel mondo cattolico, con i ‘fioretti’ durante la quaresima – la mortificazione autoinflitta del digiuno viene trasformata in condivisione, raccolta di elemosine per i più poveri, cena gratuitamente offerta a tutti, in particolare ai più bisognosi, da parte di chi ha maggiore disponibilità.
Oggi, a seguito della loro maggiore presenza quantitativa, e al numero crescente di famiglie, la visibilità delle pratiche religiose islamiche diventa vita quotidiana e prassi consolidata, quando non abitudine. Alcuni luoghi di lavoro con manodopera immigrata chiudono o concedono festività per l’occasione, ricevendone in cambio un beneficio di gratitudine e riconoscenza (peraltro c’è chi, da decenni, fa già di più: la prima fabbrica di cui ho notizia che abbia concesso uno spazio interno per svolgere la preghiera di venerdì è veneta e risale agli anni Novanta, quasi tutte quelle che hanno la mensa hanno introdotto senza proteste un’alternativa vegetariana o senza maiale, mentre ci sono imprenditori che scambiano volentieri la vacanza dei dipendenti in agosto con quella nel mese di Ramadan, per chi ha la famiglia nel paese d’origine, con vantaggio reciproco).
Molte parrocchie e diocesi si scambiano visite con le moschee e gli imam, partecipando alle rispettive festività e non di rado concedendo spazi per la celebrazione dell’Aid. Non pochi sindaci, sull’esempio del presidente Mattarella, hanno inserito i messaggi di auguri e saluti alle comunità religiose minoritarie nel loro calendario istituzionale. E, infine, alcune scuole con popolazione immigrata numerosa, cominciano a considerare anche questa come una festività possibile (non in sostituzione di altre, men che meno quelle cristiane, ma tra le poche autonomamente decidibili dalla scuola), come si è visto quest’anno, con il solito contorno di polemiche da parte della politica.
Ecco, in tutto questo, quello che colpisce di più è proprio il contrasto tra la normalità sociale del fenomeno – la società cambia, e se ne prende atto – e l’eccezionalismo che costruisce la politica. Tra l’incontro fattuale che avviene sul lavoro, nelle scuole, nello sport, nel tempo libero, in cui persone di diverse culture, religioni, colore della pelle, partecipano agli stessi momenti di condivisione, dalle feste di compleanno in su. E lo scontro reale che producono infuocate parole d’ordine che incitano di fatto all’odio sociale, paventando inesistenti attentati contro l’identità cristiana del paese.
Peraltro, in maniera singolare, mentre parroci e vescovi si prodigano nella costruzione di momenti di incontro, i presunti difensori di questa identità (autoimpostisi come tali, anche se di rado li si vede in chiesa, peraltro) costruiscono occasioni di conflitto sociale sulla pelle delle persone, stigmatizzando intere comunità, solo per conquistare un quarto d’ora di visibilità, da giocarsi alle prossime elezioni: inviterei a sostituire, in certi veementi discorsi politici o articoli di giornale, la parola musulmani con la parola ebrei, per vedere l’effetto che fa.
La società è dunque più avanti della politica che pretende di rappresentarla. E forse è il caso di cominciare a farlo presente al ceto politico: dietro il loro uso disinvolto e mirato di divieti e proibizioni c’è un problema etico e civile grosso come una casa. E dovremmo ricordare ai nostri rappresentanti che sono pagati per risolvere problemi, non per crearne.