di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Ha cominciato Trump nel 2018 introducendo poderosi dazi alle merci importate dalla Cina per proteggere il lavoro made in Usa. Allora fu attaccato da tutti come sovvertitore del libero mercato. Trump non ha cambiato idea e nel suo programma elettorale prevede dazi dal 60% al 200% su tutti i prodotti cinesi e il 10% su tutto l’import dall’estero (sia da paesi amici che nemici). Ora Biden va oltre, avendo scoperto che tra gli elettori difendere il lavoro degli americani porta voti e ha deciso la più gigantesca operazione di protezionismo: i dazi sulle auto elettriche cinesi saliranno dall’attuale 27,5% al 102,5%, sulle batterie di litio al 25% (il cui maggiore produttore al mondo è il Congo con miniere controllate dai cinesi), e 50% sui pannelli solari e chip cinesi. Nel 2023 l’export cinese in Usa è stato di 427 miliardi.
Già oggi i dazi del 27,5% fanno sì che le sole auto cinesi che arrivano in Usa (60mila) siano di marchi di case americane ma fatti completamente in Cina (si dice “badge engineering”). Ci sono poi dazi su terre rare e grafite dal 2026, su certi acciai, le gru per scarico dalle navi, materiali sanitari, etc. In sostanza tutti i prodotti dei settori green e high teck che il governo Usa sussidia ma che i consumatori americani possono oggi comprare dalla Cina a prezzi minori.
Prima di Trump i beneficiati dai bassi prezzi cinesi erano i consumatori americani ma erano colpiti molti lavoratori americani, ora succede il contrario, si difende il lavoro americano a scapito di prezzi più alti per tutti i consumatori e Biden si è allineato (su questo punto) a Trump, e giustifica questi dazi col fatto di “volere una competizione equa”. Cosa ci sia di equo in dazi di questa portata rimane un mistero per chi si dichiara liberista. Ovviamente ciò porterà a dazi anche per l’import Usa in Cina.
La svolta americana, a cui seguirà quella dell’Europa dimostra che il “libero mercato” (se non è regolato) distrugge il lavoro nei settori più deboli (o nascenti), come quando fai combattere sul ring un pugile peso massimo con un peso piuma (e infatti ci sono rigorose regole di peso).
Che fare allora? Da sempre tra i paesi ci sono dazi e regole che cercano di contemperare la difesa del lavoro interno coi vantaggi di prezzi bassi per i consumatori. E’ quello che non è avvenuto in Italia per esempio con l’allargamento del mercato europeo nel 2004 a 100 milioni di lavoratori dell’est (voluto da Germania, Francia e paesi nordici), per cui oggi ci ritroviamo in Italia con salari bassi del 4,5% rispetto al 2013, mentre per Francia, Spagna e Germania le retribuzioni reali sono aumentate rispettivamente dell’1,1, del 3,2 e del 5,7%. Nei paesi dell’est gli aumenti sono stati molto maggiori.
Per l’Italia abbiamo avuto prezzi più bassi per tutti i consumatori ma, in cambio, salari più bassi e il lavoro in più è stato soprattutto lavoro povero (nel manifatturiero abbiamo perso il 20% degli occupati in 20 anni, mentre la Germania è cresciuta).
L’Italia ha infatti oggi più occupati di 10 anni fa ma un record in Europa di lavoratori che guadagnano meno del 60% del salario mediano e sono quindi considerati poveri (11,5%, 4,4 milioni, rispetto alla media UE - 8,7%-, con un aumento rispetto a 10 ani fa). Dopo 10 anni gli occupati nelle professioni “alte” (intellettuali, scientifiche e tecniche) sono cresciuti pochissimo (dal 30 al 33% del totale): un’incidenza appena superiore rispetto alla Spagna (32% che però 10 anni fa era al 24%) e 10 punti inferiore alla Francia (42,7%) e alla Germania (43,6%). Da 20 anni cresce poi solo l’occupazione over 50 e 60, mentre calano i giovani. La crescita è anche dovuta ai part-time che in Italia sono cresciuti più che altrove e ora ne abbiamo più di Francia e Spagna. Sono cresciuti anche coloro che lavorano a tempo determinato (16% sul totale) per cui ora siamo primi in Europa, in quanto la Spagna che ne aveva una “marea” (35%) è riuscita a dimezzarli (16%).
L’Italia ha raggiunto inoltre il massimo di individui in povertà assoluta (5,7 milioni) negli ultimi 10 anni che si aggiungono ai lavoratori poveri cresciuti dal 4,9% del 2014 al 7,6% del 2023. Dati contenuti nel Rapporto Annuale 2024 Istat appena pubblicato (https://www.istat.it/it/files//2024/05/Capitolo-2.pdf).
Nonostante infatti ogni trimestre si dica che gli occupati italiani crescono (ed è vero), il tasso di occupazione dai 20 ai 64 anni sulla popolazione è in Italia nel 2023 il più basso in Europa (66,3%) 10 punti inferiore alla media UE 27 e sotto la stessa media dei paesi dell’Est Europa che quando sono entrati nel 2004 stavano molto peggio di noi.
Ora è probabile che anche l’Europa segua (come al solito) gli Stati Uniti nell’imporre dazi alle auto cinesi e ad altri prodotti importati, ma intanto Stellantis (la multinazionale gigante formata nel 2021 da FCA e PSA) ha fatto una partnership con la casa cinese Leapmotor di Hangzhou (di cui possiede il 20%) mettendo a disposizione la sua rete europea per vendere le auto elettriche made in China. Stellantis nega di fare “badge engineering”, cioé rimarchiare auto Leapmotor col brand Fiat, Opel o Citroën, come fa Lidl con la cioccolata Ferrero, pur vendendo anche Ferrero ad un prezzo maggiore. Nel groviglio di fornitori e interessi globali degli azionisti sarà dura in futuro sapere quando si acquista un’auto chi ci lavora dietro a costruirla.
Il Ceo di Stellantis, il portoghese Tavares (39 milioni di stipendio quest’anno), a chi lo accusa di fare il “cavallo di Troia” importando auto elettriche cinesi in Europa, risponde che almeno così ci guadagna anche Stellantis, in quanto i cinesi “arriverebbero comunque”. Più che un produttore ragiona da mercante e pensa al profitto e a come remunerare gli azionisti di Stellantis. Il lavoro dell’automotive in Italia può anche finire: è sceso infatti da 112mila dipendenti del 2000 ai 47.200 del 2023. Hanno chiuso centinaia di piccole industrie della filiera auto e della manifattura dove i salari sono più alti degli altri settori e ciò spiega perché cresca in Italia il lavoro povero. Ormai ci resta qualcosa di marginale di Stellantis con la 500 ibrida a Mirafiori e Melfi, Alfa Romeo Giulia, Stelvio e Lancia Gamma, Maserati, Ferrari (ma la pista di Nardò è stata venduta a Porsche). I grandi volumi si faranno in Polonia, Spagna, Francia, Germania, Serbia (dove nascerà la Panda elettrica) e in Marocco dove il costo del lavoro (anche degli ingegneri indiani e brasiliani) è 5 volte meno.
La cinese Leapmotor ha venduto nel 2023 144mila auto ma può salire a 800mila nel futuro.
Il ministro delle Imprese e Made in Italy Adolfo Urso (di centro-destra) conferma così l’interesse, che è anche dei sindacati (più di centro-sinistra), a far entrare in Italia un secondo produttore di auto che potrebbe essere proprio cinese. La Cgil propone che i modelli Leapmotor cinesi siano almeno costruiti in Italia negli stabilimenti Stellantis (i sindacati difendono il lavoro). In sostanza si vede bene come la polarità “lavoro” verso “profitti” non sia più centrale: varrebbe la pena discuterne, non da oggi ma da ieri, da quando è nata l’Europa, perché a forza di “libero mercato” deregolato, arriva lo spettro della miseria e la rottura del nostro ordine sociale, disperdendo decenni di progresso nei diritti e nel lavoro.