di Fulvio Ferrario. Teologo valdese. Pubblicato in Confronti del 10 maggio 2024.
Alcune settimane fa, mentre le Chiese cattolica ed evangelica celebravano la Settimana Santa, il patriarca Kirill ha dichiarato “santa” anche la guerra di Putin. Niente di nuovo quanto alla sostanza e nemmeno rispetto alla storia: ampi settori del cristianesimo, ad esempio, hanno fatto e detto qualcosa di analogo in altre circostanze. Certo, si tratta di un linguaggio colorito. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha chiesto chiarimenti: chissà, forse, prima o poi, Kirill, nel tentativo di spiegarsi meglio, uscirà per propria scelta dal consesso.
Consiglio a parte, come possono reagire le altre Chiese a toni di questo genere? Almeno su un punto, a mio parere non irrilevante, si può essere d’accordo: nessun atteggiamento simmetrico, nessuna guerra santa per la democrazia, per la libertà, per i diritti. La guerra, e anche la politica, sono realtà profane, secolari; lo sono anche democrazia, libertà e diritti, realizzati (se, dove e quando lo sono), in forme sempre parziali e contraddittorie. La Chiesa di Gesù non replica all’idolatria sacralizzando quanto le sembra politicamente auspicabile, bensì riconoscendo la relatività di tutto ciò che è terreno. Questo non significa che democrazia, libertà e diritti non siano realtà importanti, per le quali valga la pena impegnarsi. In quali forme? «Come dice papa Francesco» (insieme, peraltro, a ogni altro abitante del pianeta, compresi, presumo, Putin e Kirill), la pace è molto meglio della guerra.
Questo consenso, ampio, ma un poco generico, si potrebbe forse precisare superando, nella discussione sul conseguimento della pace, l’alternativa secca tra «diplomazia» e «armi». Non è necessario un master in geopolitica per sapere che il fattore militare è sempre parte di ogni trattativa diplomatica. Chi si affida alla diplomazia in vista della pace non può rimuovere la centralità dello strumento militare.
Un filone della tradizione cristiana si muove in questa direzione, cercando, spesso con modesto successo, di elaborare anche teologicamente tutta l’ambiguità che tale punto di vista porta con sé. L’elemento centrale di questo progetto risiede precisamente in un’opzione di fondo per lo strumento politico: la pace in questo mondo ha un carattere politico e va perseguita politicamente. La diplomazia è uno strumento della politica e la forza militare è parte del lavoro diplomatico. Il contenuto specificamente etico di questa idea è che la pace parziale e precaria che ne costituisce l’obiettivo sia da preferire all’arbitrio di chi ragiona in termini di puro dispiegamento della forza.
L’altra grande corrente della tradizione cristiana rileva che le armi uccidono anche quando non sono direttamente utilizzate (ad esempio a motivo delle risorse che sottraggono a progetti ben altrimenti commendevoli) e che comunque, quando ci sono, finiscono sempre per sparare. Le teorie della “guerra giusta» e le loro evoluzioni più recenti hanno giustificato tutte le guerre ingiuste della storia e, in ogni caso, nessuna teoria del genere è presente nel Nuovo Testamento. Il compito della Chiesa, in questa prospettiva, consiste nell’annunciare il messaggio del profeta disarmato venuto da Nazareth, come grande alternativa a una logica che produce inesorabilmente la guerra. Si tratta di una posizione chiara e a suo modo coerente: essa implica, anche se è restia ad ammetterlo, la rinuncia alla costruzione politica della pace, ma secondo alcuni il compito della Chiesa consiste nel testimoniare non tanto la pace (che non dipende mai da una parte sola), bensì la rinuncia alle armi da parte di chi crede.
Questa dialettica fa parte della storia cristiana e non verrà certo composta ora. C’è anzi chi usa in proposito la categoria di «complementarità», derivata dalla fisica delle particelle, che prevede un dualismo strutturalmente non superabile, ma a suo modo fecondo. Un primo obiettivo potrebbe essere evitare di discutere di pace in termini bellicosi, lacerando Chiese già debolissime. Tanto più che, indipendentemente da vescovi e sinodi, le società compiono in ogni caso le loro scelte.