di Lidia Baratta. Pubblicato il Linkiesta del 15 maggio 2024.
Il Rapporto annuale dell’Istat spiega che l’aumento dell’occupazione degli ultimi vent’anni è dovuto soprattutto agli ultracinquantenni, che hanno contratti stabili e stipendi più alti. Mentre tra i venti-trentenni, sempre meno numerosi, è concentrato il disagio economico e lavorativo, soprattutto tra le donne.
A inizio 2023, i giovani italiani tra i diciotto e i trentaquattro anni erano poco più di 10,3 milioni, il 17,5 per cento della popolazione, due milioni in meno rispetto al 2004. Una riserva indiana calata di quasi il ventitré per cento in vent’anni, che ci fa classificare all’ultimo posto in un’Europa che pure sta invecchiando a ritmi sostenuti. Con l’aggravante, però, che da noi non solo i giovani sono pochi ma stanno anche sempre peggio. Mentre gli ultracinquantenni hanno case, stipendi più alti, una vita sociale attiva e vivono sempre meglio il passaggio verso l’età anziana che si sposta sempre più in avanti, i venti-trentenni continuano a collezionare stipendi più bassi, contratti di lavoro deboli ed escono sempre più tardi dalle mura di casa dei genitori.
È la fotografia che arriva dal Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese, un tomo di oltre duecento pagine che analizza l’economia italiana, i cambiamenti del lavoro, le condizioni e la qualità della vita. E l’elefante nella stanza è sempre lì: l’invecchiamento demografico e la questione giovanile. «Essere giovani, adulti o anziani non risponde più soltanto a fattori di ordine biologico e anagrafico», scrive l’Istat. «I tempi e i modi con cui si passa dall’età giovanile a quella adulta e da questa all’età anziana dipendono dalle condizioni economiche e dagli stili di vita».
L’allungamento dei percorsi di studio ha posticipato l’ingresso sul mercato del lavoro dei giovani, sempre meno numerosi a causa del continuo calo delle nascite. Mentre le folte generazioni ormai adulte dei baby boomer, con titoli di studio via via più elevati, permangono più a lungo nel mercato del lavoro grazie alle riforme del sistema pensionistico.
Certo, conta il fatto che i più giovani entrano nel mercato più tardi e i più anziani ci restano più a lungo. E conta il calo delle nascite. La bassa produttività italiana sicuramente passa anche da qui. La differenza generazionale non riguarda solo i numeri, ma anche la qualità del lavoro. Uno dei tratti distintivi degli ultimi vent’anni è stata la crescita dei dipendenti a tempo determinato, interrotta solo nelle fasi di crisi come quella della pandemia. I lavoratori con contratti a termine sono infatti i primi a perdere il posto all’inizio di un periodo di crisi e ad aumentare con la successiva ripresa.
Eppure giovani italiani studiano di più rispetto al passato. Ma non a sufficienza per raggiungere i livelli dei coetanei europei. Ma il ritardo con la media è addirittura cresciuto. Il livello complessivo di istruzione della popolazione tra i 25 e i 34 anni resta mediamente inferiore rispetto alle principali economie europee, sia per effetto di una percentuale ancora elevata di giovani con la sola licenza media (ventidue per cento), sia per la scarsa diffusione dei titoli universitari di ciclo breve.
E il risultato è che, nonostante siano sempre di meno, è proprio tra i giovani che si concentra gran parte della forza lavoro inutilizzata di disoccupati e inattivi, quelli che non studiano, non lavorano e un’occupazione non la cercano nemmeno. Le donne in questo bacino sono oltre la metà, i giovani più del trentanove per cento.
È qui che sta il grande buco italiano. Il Mezzogiorno – soprattutto nei contesti rurali – «è, attualmente, la punta avanzata di una riduzione dei giovani inedita per l’Italia. Queste tendenze demografiche si associano a un percorso più lungo e complicato verso l’età adulta, a partire dalla dilatazione delle transizioni familiari: l’uscita dalla casa dei genitori; la formazione di una famiglia propria; la genitorialità», scrive l’Istat.
Un disequilibrio che, dicono dall’istituto di statistica, poggia le sue speranze solo sui flussi migratori stranieri. Tra i rifugiati ucraini arrivati dopo l’invasione russa del 2022 e l’aumento delle regolarizzazioni nei decreti flussi, ci si potrebbe aspettare un rimbalzo della natalità nei prossimi anni. Il che sarebbe una boccata d’ossigeno soprattutto per i conti pubblici italiani, sempre più sbilanciati sulle pensioni, visto che gli over-65 sono più di quattordici milioni, di cui la metà di settantacinque anni e oltre.
Anche perché l’Italia resta tra i Paesi più longevi al mondo. E i nuovi anziani, per fortuna, sono meno anziani di prima. Molti italiani, pur avanti con l’età, continuano a partecipare alla vita sociale, economica, politica e culturale. E tutti gli indicatori sulla qualità della vita, per gli over-65, sono positivi: lo stato di salute è migliorato, usano Internet più di prima, praticano più sport, leggono, fanno volontariato, partecipano alla vita politica. Invecchiano bene in una società che invecchia – dice l’Istat. Peccato non poter dire lo stesso per i giovani.
sintesi di Alessandro Bruni
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