di Fiorella Farinelli. Pubblicato in Il Mulino del 16 maggio 2024.
La discussione pubblica sull’integrazione delle crescenti minoranze etniche e culturali si sta facendo sempre più difficile, troppo polarizzata per essere utile. È un disastro, tra gli altri, che a venirne strumentalmente coinvolta sia la scuola, la prima frontiera di due processi correlati. Da un lato la formazione dei figli dell’immigrazione per la partecipazione a pieno titolo al futuro del Paese di accoglienza; dall’altro l’educazione alla convivenza delle nuove generazioni, italiani-doc e nuovi italiani. Mettere sotto attacco gli insegnanti che operano in quest’orizzonte, diffondere allarmi sul “cedimento continuo all’islamizzazione” che connoterebbe scuole come quella di Pioltello è irresponsabile, e potrebbe rivelarsi un boomerang in un’Italia dove ci sono 2,7 milioni di musulmani. Rincorrere la favola maligna secondo cui nelle “scuole plurali” si minerebbe oltre all’identità culturale degli italiani anche il loro apprendimento – la stessa che alimenta la “fuga bianca” di tante famiglie contribuendo alla polarizzazione etnico-sociale degli istituti scolastici – è una falsità che può far raccattare voti, ma fa male alla scuola e al nostro futuro. Irresponsabile è però anche la banalizzazione dell’integrazione, la retorica dell’inclusione che nasconde ogni polvere sotto il tappeto, il disconoscimento della specificità del problema in nome di povertà o fragilità generiche.
Gli 865.388 studenti di cittadinanza non italiana recentemente censiti dal ministero dell’Istruzione, quasi metà di provenienza europea, non sono gli “invasori” di Lampedusa. Si tratta per lo più dei figli dell’immigrazione stabilizzata, oltre il 67% nati in Italia, seconde e talora terze generazioni. Degli altri, molti sono venuti nei primi anni di vita, una quota minore sono i nuovi arrivati (NaI) per lo più da adolescenti “senza sapere una parola di italiano”: i “ricongiunti” e i “minori non accompagnati” (dalla Tunisia, dall’Egitto, e anche da quell’Albania cui abbiamo esternalizzato il vaglio dei nostri ultimi arrivi).
Nel 2022 i NaI sono stati 16 mila, un numero più che dimezzato rispetto a dieci anni fa, di cui 14 mila nelle due secondarie. I dati sui risultati medi di apprendimento, migliori nelle scuole del Nord sebbene a presenza “straniera” più alta (nelle regioni settentrionali se ne addensa più del 62% del totale, il 25% nella sola Lombardia, mentre nel Sud si è sempre abbondantemente sotto il 10%) sfatano il pregiudizio, raccolto e rilanciato dal ministro Valditara, secondo cui i loro deficit linguistici metterebbero a rischio l’apprendimento degli studenti italiani. Sono il 10,3% della scolarità, meno della consistenza effettiva perché le statistiche del ministero non intercettano i tanti già cittadini italiani. Ma il peso specifico è destinato a crescere, al di là di oscillazioni annuali, per un calo demografico che falcia ogni anno nella scuola circa 100 mila iscrizioni.
Non si gioca, del resto, solo su questo la partita della padronanza linguistica. Rivela anzi le ambiguità e l’approssimazione di proposte come quelle di Valditara che non ci siano riferimenti ad altri interventi. In un contesto come il nostro, connotato da un tasso tanto alto di nati in Italia, è per esempio evidente che farebbe la differenza puntare anche sulla scuola dell’infanzia. Un’opportunità educativa preziosa, negli anni di più intenso e spontaneo apprendimento linguistico e prima della lettoscrittura della scuola primaria, per un accompagnamento competente al bilinguismo che occorrerebbe generalizzare. Promuovendo con il coinvolgimento delle istituzioni locali la mediazione culturale con le famiglie e le comunità necessaria a rimuovere gli ostacoli che riducono di venti punti percentuali la partecipazione alle scuole per l’infanzia dei bambini non italofoni. Gli ostacoli, infatti, derivano principalmente dal ruolo tradizionale delle donne in alcune comunità. Un caso emblematico, dunque, della densità interculturale dell’integrazione scolastica e dell’importanza di un’attenzione speciale al rapporto tra la lingua materna degli affetti e la lingua dell’integrazione.
sintesi di Alessandro Bruni
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