di Adriana Vigneri. Pubblicato in Ytali del 9 maggio 2024.
Gli scandali recenti, Puglia e Liguria (solo scandali per ora, le responsabilità se vi sono le conosceremo soltanto in seguito dai giudici), hanno portato alcuni commentatori a riaprire il tema del finanziamento della politica. Tema molto serio, che è stato accantonato o addirittura misconosciuto per effetto delle recenti ondate di populismo, di condiscendenza per il populismo, e di odio per i partiti politici, con l’effetto che la “politica” la può fare soltanto chi i soldi li ha già. Ed è assolutamente giusto riaprire al più presto quel capitolo.
Qui si vuole sottolineare piuttosto che il fenomeno emergente è a mio avviso non tanto di carattere finanziario bensì di ricerca del consenso. Si fanno i favori (e si chiede di essere contraccambiati) in nome del consenso che se ne ricava. È per questo che nella nostra storia il ricavato della corruzione (metto una buona parola per la sua pratica, per il tuo appalto) non è andato prevalentemente nelle tasche dei protagonisti di tali pratiche, perché esso serviva prevalentemente alla carriera politica, al successo di tale carriera e al suo permanere nel tempo. In una parola, al consenso. E chi non applica questa prassi “vola troppo alto”, è appunto irraggiungibile dal cittadino (più spesso, dall’imprenditore) che dell’aiuto, della raccomandazione, dell’uso della corruzione ha bisogno.
Se questo è possibile e largamente utilizzato, dalle “pratiche” più minute e poco significative a quelle più importanti e più lucrose, è perché nel nostro paese lo si ritiene un male necessario. E quindi largamente applicato, anche al di fuori del mondo della politica, nel comportamento della società nella sua generalità.
A causa – si potrebbe osservare – della diffusa sfiducia per la competenza, la rapidità, la correttezza, dell’agire delle pubbliche amministrazioni. Dello Stato nel suo insieme. Ma c’è di peggio, che quella sfiducia ha ormai creato un modus operandi, un comportamento considerato più o meno “normale” o “scontato”, in qualche modo giustificato da una sorta di necessità, nei piccoli e nei grandi casi, che scandalizzano, questi ultimi, non tanto in sé quanto per la loro rilevanza economica.
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Presidenti di Regione a processo, ecco i precedenti del caso Toti
di Stefano Marrone. Pubblicato in True news del 10 maggio 2024.
L’inchiesta in Liguria ha portato Giovanni Toti agli arresti domiciliari. Non sarebbe il primo caso di Presidente di Regione che finisce a processo. Anzi, le ricostruzioni del sito Pagella Politica, mostrano come prima di Toti ci sono stati altri tre casi di presidenti di Regione sottoposti a misure cautelari durante il loro mandato: tutti e tre del Partito Democratico. Come è andata a finire poi?
I presidenti di Regione a processo prima di Toti
L’ultimo presidente di Regione che ha subito una misura cautelare è stato il calabrese Mario Oliverio. Il 17 dicembre 2018 a Oliverio, esponente del PD a capo della Regione Calabria, è stato imposto l’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore. L’accusa nei suoi confronti era di abuso d’ufficio nella gestione di due appalti. Oliverio non si è dimesso dalla carica, ma non si è ricandidato alle elezioni regionali del 2020, vinte dal centrodestra con la compianta Jole Santelli. Il 4 gennaio 2021 l’ex Presidente di Regione è stato assolto dal Tribunale di Catanzaro, al termine di un processo con rito abbreviato.
Nello stesso anno, l’allora presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella è stato messo agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, con l’accusa di falso e abuso d’ufficio. Pittella si è dimesso poi dalla carica di presidente di regione il 24 gennaio 2019. Oggi è candidato alle Europee con Azione, dopo essere stato assolto in primo grado, assoluzione poi confermata in appello un mese fa.
L’ultimo presidente di regione arrestato durante il suo mandato è stato Ottaviano Del Turco, in Abruzzo. Il 14 luglio 2008, l’allora esponente del PD è stato portato in carcere con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione, e si è dimesso tre giorni dopo. Dopo una lunga vicenda processuale, l’11 ottobre 2018 – oltre dieci anni dopo l’arresto – Del Turco è stato condannato definitivamente in Cassazione a tre anni e 11 mesi di reclusione.
Gli altri precedenti
Ma ci sono stati anche Presidenti di Regione finti in carcere successivamente, per azioni commesse durante il loro mandato. I due casi più famosi sono quelli di Salvatore Cuffaro e Roberto Formigoni. Il primo ha governato la Regione Sicilia tra il 2001 e il 2008. Cuffaro, esponente del centrodestra siciliano, non ha portato a termine il suo secondo mandato perché si è dimesso dalla carica di presidente dopo essere stato condannato in primo grado per favoreggiamento. Nel 2011 è stato condannato a cinque anni di carcere a Rebibbia, da cui è uscito nel 2015.
Formigoni, anche lui politico di centrodestra, ha guidato la Regione Lombardia dal 1995 al 2013, concludendo in anticipo il suo quarto mandato. Il 21 febbraio 2019 è stato recluso nel carcere di Bollate dopo la condanna in via definitiva dalla Cassazione a cinque anni e dieci mesi. Secondo i giudici, Formigoni aveva commesso il reato di corruzione tra il 1997 e il 2011, durante il suo mandato di presidente della Regione Lombardia. Formigoni ha finito di scontare la pena agli arresti domiciliari nel 2023.
Giancarlo Galan, Presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010, nel 2014 è entrato a Opera dopo che la Camera dei deputati, di cui faceva parte, aveva consentito il suo arresto per aver ricevuto denaro per l’avanzamento dei lavori del Mose. A ottobre 2014 Galan ha patteggiato una condanna a due anni e 10 mesi di detenzione, quasi tutti trascorsi agli arresti domiciliari, e una multa da 2,6 milioni di euro. Infine, c’è il caso di Giuseppe Scopelliti, ex presidente di centrodestra della Calabria che nel 2021 ha finito di scontare la pena in carcere dopo che nel 2018 è stato condannato dalla Cassazione per falso e abuso d’ufficio. La condanna risaliva ai tempi in cui era sindaco di Reggio Calabria.
sintesi di Alessandro Bruni
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