Pubblicato in Periscopio del 29 maggio 2024.
Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte improvvisa dell’amico Daniele Lugli. Ripresentiamo qui la sintesi di una sua lunga intervista realizzata da Dalia Bighinati per Telestense e trascritta da Elena Buccoliero.
I conflitti anche estremi che ormai lambiscono l’Europa richiedono, proprio per la loro complessità, di non essere affrontati con la soluzione militare. Mai si è mostrato che la soluzione militare sia idonea ad affrontare i conflitti, di solito serve a prepararne degli altri, o ad aggravare quelli esistenti. Ma proprio la complessità dei conflitti, lo scontro di culture differenti, di impostazioni diverse, la difficoltà persino di comunicare su basi comuni impone di avere altri strumenti di contatto e di difesa. Impone di trovare delle possibilità. Prima che i conflitti giungono al loro estremo, intanto, interventi che valgano o a mitigarli o a fargli prendere un’altra direzione.
Vediamo che anche la diplomazia degli stati incontra forti limiti, proprio per i forti interessi, anche spesso distorsivi, che gli stati portano. Mentre da un lato si afferma di voler combattere una certa situazione di ingiustizia all’interno di un paese, e questo diventa motivo di un intervento, contemporaneamente ci sono interessi potenti, magari di carattere economico, che predominano. Abbiamo visto invece che diplomazie dal basso hanno avuto un effetto che interventi di carattere statuale non riuscivano ad avere.
In un dibattito che ho avuto ormai anni fa a Viterbo con il generale Mini che in Kossovo ha assunto ruolo decisivo riconosceva che ci sono cose che i militari non possono fare. Proprio perché hanno bombardato fino al giorno prima, non sono adatti, poi, a ricomporre.
Bisogna istituire un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta, nel quale possano esprimersi capacità che hanno già avuto qualche terreno di traduzione, molto spesso basato solamente su un volontariato generoso. Stiamo parlando da un lato del servizio civile nelle sue dimensioni internazionali, ma anche e ulteriormente dei caschi bianchi, delle brigate per la pace, di formazioni di civili che sono intervenute nei conflitti. Persone che hanno fatto scelte anche estreme, nel collocarsi come scudi umani nei momenti in cui i conflitti erano aperti, però assumendo iniziative che hanno mostrato delle possibilità.
Esempi ne abbiamo anche in Italia, con i caschi bianchi legati in particolare alla Papa Giovanni XXIII, un’esperienza che si è innestata anche su una parte del servizio civile. L’idea è quella che Langer nel ’95 aveva portato al Parlamento Europeo, perché quella a me sembra la sede giusta: istituire dei Corpi civili di pace in grado di intervenire anche fuori dai confini europei.
Nelle relazioni internazionali si tratta di affiancare alla difesa militare un’altra possibilità di difesa, di intervento, di interlocuzione, sapendo che anche il nemico non è un monolite e che le possibilità passano – come si è visto nelle guerre passate – attraverso le conversioni, attraverso i mutamenti in positivo, attraverso dei punti di sbocco per cui non è vero che uno deve vincere tutto e l’altro deve perdere tutto ma si possono trovare dei punti di saldatura.
“E poi c’è il fatto di comprendere, credo, che è proprio di questa generazione il compito di tradurre quello che generazioni precedenti avevano avvertito come imprescindibile”.
Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà.
Per questo per noi è molto importante conoscere nel modo più approfondito e più preciso le situazioni per come si presentano. Non abbiamo nessun interesse a fare una rappresentazione irenica della realtà, vogliamo proprio vederci dentro. Non a caso sono i movimenti pacifisti ad avere studiato con più attenzione gli ultimi conflitti internazionali, e ad avere rilevato – questo è diventato ormai indiscutibile – che in ogni conflitto affrontato militarmente si è usciti peggio di come si era entrati. Gli stessi generali hanno detto: va bene, possiamo fare la guerra, ma ci dite per che cosa? E neanche si è capito verso quale direzione di pacificazione, di maggior giustizia, in qualche modo si andasse.
Il problema è, per noi, far vedere che la democrazia è in grado di mantenere le sue promesse. L’unica sua forza è proprio far vedere che nonostante le paure è in grado di mantenere le promesse che fa. La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.
Quando c’è la paura non c’è spazio per altro. Ed è vero che la paura come tale, quando c’è, bisogna prendere atto che c’è. Però è possibile, intanto, non farsene imprenditori, al contrario di alcune forze politiche, o di alcune forze che a fatica si possono chiamare culturali. E quindi comprendere il gioco molto sporco che si va facendo, su un elemento drammatico e però costante che è quello delle grandi migrazioni di massa che peraltro si volgono, al 90%, all’interno di questo terzo mondo in difficoltà, aumentandone le difficoltà.
La democrazia deve essere vissuta quotidianamente. Anche nel nostro paese, nel momento in cui se ne avverte la fragilità, se ne avvertono i limiti, se ne avverte l’impotenza, non c’è niente che ce la imponga. Nonostante pensiamo in Europa di essere il cuore della democrazia.
Capitini diceva: scegliendo la nonviolenza io intanto ti dico che non ti ucciderò; io intanto ti dico che rispetto tutto quello che c’è, sono contento che ci sia, e ne voglio la libertà e ne voglio lo sviluppo – che è poi la definizione di nonviolenza che io prediligo. La corruzione, però, induce un elemento di incertezza, uno scadimento nelle relazioni tra le persone, oltre a essere poi veicolo della criminalità organizzata, che non scherza quando di violenza ha bisogno.
Quindi proviamo a chiederci in quale modo efficace contrastare questa attrazione che i giovani sentono, dando loro la possibilità di fare qualcosa, qualcosa di decisivo, dall’interno della proposta che i nostri paesi imperfetti, ma con una solida Costituzione, possono offrire.
sintesi di Alessandro Bruni
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l’intervista integrale può essere vista a questo link