di Sandro Spinsanti. Pubblicato nel blog dell'autore il 27 giugno 2024.
“Credetemi, sono un medico”: era il titolo di un programma televisivo inglese. È arrivato all’attenzione perché Michel Mosley, il medico che lo conduceva con successo, è morto incidentalmente in un’isola greca, in cui si trovava in vacanza. Pagato il tributo di pietas per la sua scomparsa, vale la pena riflettere sul titolo del programma che lo ha reso celebre. Ci troviamo a esplorare un territorio molto problematico: quello della fiducia che sostanzia il rapporto tra chi eroga le cure e chi le riceve. Per lunghissimo tempo la figura del medico è stata sinonimo di autorevolezza indiscussa. “Mica me lo ha prescritto il medico”: era un modo di dire colloquiale che traduceva la fiducia su cui poggiava la relazione. Al medico si chiedeva di prendere le decisioni “in scienza e coscienza”; al malato di seguirle fiduciosamente. Un modello di rapporto che dobbiamo consegnare al passato. Ai nostri giorni non è più proponibile tale e quale.
È in crisi l’appello alla coscienza. Implicava che le scelte terapeutiche fossero finalizzate unicamente al miglior vantaggio della persona malata. Forse non molti hanno la franchezza di porre la domanda brutale: “Dottore, perché mi prescrive quello che mi prescrive?”; tuttavia il dubbio che la risposta asciutta: “Per il tuo bene!” non sia sempre giustificata grava su molti rapporti. A inquietare non è solo l’ombra lunga degli interessi delle aziende farmaceutiche, ma anche l’incombere delle restrizioni nella gestione della sanità pubblica. Il sospetto è che, più al bene del malato, le prescrizioni siano orientate al rispetto del budget. Anche l’altro pilastro della fiducia del passato – la scienza del medico – è messo in discussione da quando internet ha reso il sapere disponibile a tutti. Basta un clic per accedere; e quasi nessuno si priva oggi della facoltà di far ricorso all’inflazionatissimo “dottor Google”.
È soprattutto il modello fondamentale di rapporto asimmetrico che è entrato in crisi e chiede una modalità diversa di strutturare la fiducia. Perché oggi chiediamo che la cura sia personalizzata e ciò esige, prima ancora dell’informazione, l’ascolto della persona malata. Nonché la considerazione di ciò che per lei ha valore e determina una vita di qualità. In questo scenario ideale ci rendiamo conto che ci sono molti modi diversi di praticare la medicina. I professionisti scelgono, più o meno consapevolmente, che tipo di medico essere; ovvero, con linguaggio sociologico, quale postura assumere.
C’è il medico a cui interessa curare le malattie, non i malati (narrativamente rappresentato dal dottor House dell’omonima serie televisiva); il medico riduzionista, che ha orecchio solo per le scienze biologiche ed è insensibile alle Medical Humanities e alla medicina narrativa; il filantropo benevolo accanto al medico “protocollista”, preoccupato solo di attenersi a protocolli e linee guida. La varietà delle posture è enorme e convivono simultaneamente nello scenario della medicina del nostro tempo. Per questo non basta più chiedere la fiducia per il semplice fatto che uno si presenta come medico; bisognerà anche specificare in quale ambito del mondo dei curanti si colloca. E anche il cittadino dovrà essere più consapevole di quale modalità di cura va richiedendo. La medicina oggi non è un abito a taglia unica; la cura sartoriale richiede un impegno dall’una come dall’altra parte.