di Lorenzo Asti. Pubblicato in Il Mulino del 13 giugno 2024
Nel dibattito pubblico sull’istruzione, opinioni e commenti si riconducono principalmente a due filoni. Da una parte si collocano i promotori delle tecnologie didattiche, che predicano la non frontalità e la personalizzazione della didattica, per poi proporre modelli procedurali di lezione e valutazione secondo schematismi di stile ingegneristico. Questi innovatori si mostrano sicuri di possedere e poter trasmettere soluzioni definitive pronte all’uso nella propria «cassetta degli attrezzi»: la chiamano proprio così; e spesso ne vendono o ne sponsorizzano una. Fa da contraltare il rifugio sconsolato nel mala tempora currunt come criterio analitico per identificare le cause dello scenario attuale e delinearne le prospettive, condito di compassione paternalistica nei confronti degli insegnanti da parte di estranei alla categoria.
Per quanto comprensibile, questa reazione è spesso accompagnata da poco calibrate levate di scudi a difesa di una cultura, non meglio definita, delle lingue antiche, dei classici, della tradizione, di una fantomatica matematica pura. Così, attribuendo la colpa ai “tempi che corrono”, ma anche in modo generico ai tagli della spesa, si impedisce un’analisi di merito dei processi storico-politici che hanno determinato la situazione attuale.
Riguardo la disponibilità finanziaria per gli adeguamenti stipendiali, sarebbe bene valutare con quale efficacia una quota dei già inadeguati (rispetto alla media europea) fondi destinati al comparto scuola vengano oggi utilizzati per erogare corsi di aggiornamento per il personale docente e sviluppare progetti di vario tipo per studenti, entrambi spesso di livello più che discutibile, con il ricorso pressoché totale a una galassia di soggetti privati in interventi isolati, piuttosto che con un coinvolgimento strutturale e continuo delle università, il soggetto più autorevole e qualificato in campo di formazione.
Posto che la scuola dovrebbe essere nei fatti, oltre che nei proclami, interesse di qualsiasi parte politica, chi potrebbe oggi rappresentare idealmente gli interessi degli insegnanti? Il numero dei docenti di ruolo ammonta a circa 700 mila unità con una componente femminile intorno all’80%. Ciò per ragioni storiche alle quali sono legate anche le basse retribuzioni del comparto: per decenni quello dell’insegnamento è stata una delle poche funzioni pubbliche accessibili alle donne laureate la cui subalternità al capo famiglia era rimarcata anche da uno stipendio più basso. Lo status sociale era garantito da un titolo di studio, a differenza di oggi, non inflazionato e appunto da redditi e patrimoni familiari.
In un mondo in cui chiunque ha libero accesso a un’infinità di materiale didattico di grande qualità ed efficacia e a comunità virtuali di studio e lavoro, il cuore delle attività scolastiche e il loro senso resta quello della mediazione umana tra le discipline e gli studenti, rappresentata dal lavoro quotidiano degli insegnanti. L’investimento più efficace in materia di istruzione non può dunque che riguardare la qualità del personale docente; qualità che difficilmente si otterrà se non riconoscendola adeguatamente in termini di salario e condizioni di lavoro.
sintesi di Alessandro Bruni
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