di Andrea Grillo. Pubblicato nel blog dell'autore il 5 giugno 2024.
Mi pare che l’articolo apparso oggi, 5 giugno, su “Avvenire”, col titolo Come smaschilizzare la Chiesa? Non solo slogan, ma buone pratiche, a firma di Alberto Cozzi, offra in modo esemplare quella che mi verrebbe da definire come una “fenomenologia del teologo imbarazzato”: a dire il vero la cosa si manifesta in modo davvero frequente, in diversi autori competenti, quando il tema è quello della “donna nella Chiesa”.
Nel breve volgere di due colonne, Cozzi scrive sul tema in un modo sfuggente e indiretto. Le spie di questa dinamica sofferta sono numerose. Si inizia e si conclude con un “paradosso”: non sarebbero gli slogan (come “smaschilizzare”) ma le buone pratiche ad essere utili. Sì, certo, gli slogan non vanno lontano, però è lo stesso Cozzi a dover ammettere che le “buone pratiche” devono anche trovare argomentazioni, principi, ragioni.
Lo stesso accade per la considerazioni della “novità” della donna autorevole. Cozzi cita un documento della CTI, della quale è anche membro. Un testo limpido e chiaro, che invita a non opporre rivelazione e cultura, tradizione e segni dei tempi. Ma che cosa deve fare un teologo, di fronte alla questione della donna? Rimandare semplicemente a buone pratiche? Dare per scontato un quadro “istituzionale” in cui il battesimo è per tutti ma il ministero ordinato è “riservato ai maschi”? Sarebbe questo il compito della teologia?
A me pare che qui scatti una sorta di “autodifesa” che diventa facilmente immunizzazione dal problema e, indirettamente, colpevolizzazione di chi lo affronta. Mentre alla teologia spetta il compito di elaborare, pacatamente e serenamente, ma seriamente, una visione che tenga conto di un dato culturale nuovo e che permetta perciò una rilettura più profonda e più autentica della tradizione.
Nessuna “cancel culture”, nessun giudizio sommario sul passato, ma solo consapevolezza che il nostro mondo non è più quello di prima, e che uno dei “segni” di questo mondo è proprio la nuova figura di donna nello spazio pubblico, come elemento decisivo di una “società della dignità”.
Non si può interpretare la novità come una “rivendicazione culturale” estranea alla rivelazione: questo è un giudizio grave e non fondato. E’ piuttosto la Chiesa a doversi interrogare radicalmente se possa fare a meno della autorità delle donne. Se tale domanda è autentica, la soluzione si trova, senza scandalizzarsi per il fatto che questo percorso di nuova coscienza ecclesiale implichi la necessità di cambiare le forme, sia quelle mentali, sia quelle istituzionali. Non è la prima volta che accade.
Mi sorprende il fatto che in un testo dedicato al tema dello “smaschilizzare” Cozzi voglia convincerci che la questione non merita un esame teologicamente accurato: merita solo “pazienza”. Io contesto che quello indicato da Cozzi sia un “procedere dal basso”: è piuttosto la negazione che un processo sia necessario.
Per parte mia, interpreto la cosa esattamente al contrario: proprio perché minacciata da ricostruzioni impaurite e paralizzate, la questione della donna nella Chiesa merita tutta la fatica di una teologia che giochi a tutto campo e che non si rassegni, come diceva Luigi Sartori, al destino un pò limitato e un pò opportunista di giocare per sempre il “catenaccio”.
C’è una questione di fede, di istituzione e di giustizia che non può attendere e che corrisponde alla impazienza con cui lo Spirito esige dalla sua Chiesa una risposta, in tutta parresia e senza impedimenti. Quella “parresia” e quella “libertà” che possono levare al teologo ogni imbarazzo e offrire alla Chiesa argomenti freschi e nuovi, sereni e limpidi, per i quali più che pazienza e silenzio occorrono immaginazione e audacia. Perché anzitutto Dio sogna e fa il primo passo.
sintesi di Alessandro Bruni
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