di Roberto Bertoni Bernardi. Pubblicato in ytali del 29 luglio 2024.
Vederlo oggi, neo-ottantenne, con la barba bianca e qualche acciacco, fa quasi male. Lo spirito, tuttavia, è intatto, lo stesso di cinquantasei anni fa, quando Tommie Smith, a Città del Messico, contribuì a rivoluzionare la storia dello sport. Non ricordiamo, infatti, i 19 secondi e 83 millesimi con cui corse i 200 metri, stabilendo un record che sarebbe durato undici anni (a infrangerlo fu Pietro Mennea, a sua volta a Città del Messico, nel ’79, con un memorabile 19″ e 72), ma ciò che lui e John Carlos fecero dopo, salendo sul podio con un pugno guantato di nero e alzandolo al cielo per sostenere il Progetto Olimpico dei diritti umani.
Con loro c’era l’australiano Peter Norman, anche lui sostenitore dell’iniziativa, e tutti e tre furono accomunati dalle ritorsioni che dovettero subire: un ostracismo durato decenni, fra minacce e soprusi d’ogni sorta. Eppure, se oggi il rapporto fra bianchi e neri è assai meno squilibrato, se è stata raggiunta la parità numerica fra atleti uomini e atlete donne alle Olimpiadi e se il tema dei diritti si è affermato pienamente, con buona pace di tutti i retrogradi del pianeta, il merito è soprattutto loro.
Non a caso, intervistato per Repubblica da Emanuela Audisio, Smith ha affermato:
Il bello dello sport è che offre una piattaforma e visibilità. Tutto quello che serve a liberare le persone è utile, i diritti non hanno una fine né un capolinea, non c’è un momento in cui ti sdrai perché hai ottenuto tutto. I diritti sono sempre in movimento, hanno bisogno di crescere, di campi nuovi.
È proprio così, e il pensiero di Smith, al pari del nostro, corre inevitabilmente a ciò che sta accadendo oggi negli Stati uniti, con la sfida democratica di Kamala Harris all'”America first” di Donald Trump. Non entriamo nel merito della candidatura di Harris, non è questa la sede; fatto sta che la leggenda dell’atletica ha ragione quando sostiene che “sarebbe meglio spazzare via quest’idea di women can’t” perché “le donne possono, eccome” ed “è tempo di avere anche una presidente del CIO, a capo dello sport”. Del resto, “esiste sempre una prima volta e tutti quelli che dicevano che un nero alla Casa Bianca era fantascienza sono stati smentiti”. Vale anche per le donne: alla guida del CIO e di qualunque nazione.
Tornando a Smith, non è cambiato. È rimasto il ragazzo sognatore che mezzo secolo fa, nel corso di un anno e di un’Olimpiade sensazionale, ci lasciò a bocca aperta. Quelli, oltre all’episodio citato, furono i Giochi del salto all’indietro di Fosbury, della miriade di record stabiliti in pochi giorni ma, soprattutto, delle proteste studentesche che li precedettero, con annesso, disumano massacro nella plaza de las Tre Culturas a Tlatelolco ad opera di un governo che non tollerava alcuna protesta, tanto meno quelle relative ai costi dell’evento.
Era il Sessantotto: l’anno che ha cambiato il mondo, l’anno della battaglia per le strade di Parigi, delle università occupate, dei delitti eccellenti (Martin Luther King e Robert Kennedy), della Primavera di Praga repressa nel sangue dai carri armati sovietici e, come detto, delle manifestazioni a Città del Messico contro una kermesse senz’altro straordinaria ma realizzata a spese della povera gente. Era l’anno in cui i figli del boom decisero che non bastava loro il pane: volevano anche le rose, la giustizia sociale, la dignità della persona e mille altre conquiste che sarebbe assurdo dare per acquisite, specie di questi tempi. Era l’anno dell’orgoglio nero, di cui Smith e Carlos sarebbero diventate icone loro malgrado, e della partecipazione corale a una battaglia che non riguardava i singoli ma la collettività nel suo insieme. Era l’anno in cui l'”I care” di don Milani trovò il proprio compimento a livello planetario. Era l’anno in cui il senso di comunità prevaleva sull’individualismo. Ed era, infine, l’anno in cui nessuno voleva rimanere ai margini di questa febbre del cambiamento: non i calciatori, che guidati da Sergio Campana diedero vita all’A.I.C. (Associazione Italiana Calciatori) per rivendicare i propri diritti, e nemmeno gli altri, come testimoniano le tante storie che abbiamo già raccontato, di cui Smith può essere considerato il portabandiera.
Sempre ad Audisio, non a caso, ha raccontato che
a cinque anni, con i soldi che mi aveva dato mia madre, andai a comprare un cono. Un bambino bianco me lo gettò a terra: i neri non mangiano gelato. Eravamo neri, spazzatura. E dopo il pugno del ’68 avevo l’FBI sempre alla porta, ogni volta che capitava qualcosa, come il rapimento di Patricia Hearst, venivano a bussare da me.
Dalla campagna texana all’apoteosi messicana, poi altre sfide, innumerevoli ostacoli e adesso la consacrazione: questa è stata la sua vita. Non crediate, tuttavia, che la storia sia finita perché la storia, dovremmo averlo imparato, non finisce mai. Molta strada è stata percorsa, altrettanta resta da percorrerne e Smith ne è l’esempio. Allo stesso modo, diritti, libertà e conquiste democratiche non sono mai stati così in discussione, pertanto devono essere difesi con determinazione e coraggio. Nonostante tutto, però, andiamo avanti. Come fece Tommie Smith il 16 ottobre del ’68, quando alzando un pugno al cielo mutò per sempre il nostro orizzonte, facendoci capire che i neri esistevano e che non erano più disposti a essere ignorati.
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