Il decreto sulle carceri arriverà «prestissimo», ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a margine di una conferenza stampa a palazzo Chigi. Sono 45 i detenuti che si sono tolti la vita in un istituto di pena nei quasi sei mesi del 2024, una ogni quasi tre giorni. Un numero che se continuasse a crescere a questo ritmo porterebbe il 2024 a superare il tragico dato del 2022 quando i suicidi in prigione furono 85. «Non pare che questo Governo sia particolarmente interessato a scongiurare questi eventi», dice lo scrittore Marco Balzano, che ha insegnato italiano in carcere.
Balzano, le capita di andare negli istituti penitenziari?
Saltuariamente vado in carcere ad incontrare i detenuti. Insegnare in quei luoghi in cui c’è una maggiore fragilità è una parte del mio lavoro e del mio interesse. È lì che, ancora di più e prima di tutto, serve la parola, e la parola può esprimere una funzione non tanto consolatrice o terapeutica (come va troppo spesso di moda) ma una funzione autoanalitica e narrativa, nel senso di racconto di sé per prenderne meglio coscienza. È una cosa che faccio anche perché la scuola in carcere è un tasto molto dolente.
Perché la definisce «un tasto molto dolente»?
Ci sono gruppi troppo eterogenei per preparazione, per pena da scontare, le classi si smembrano continuamente per i trasferimenti, le persone non seguono con continuità. Questo rende molto difficile portare avanti un progetto scolastico capillare, tradizionale. Quindi, ha ancora più importanza che in carcere entrino figure come gli scrittori, gli artisti in genere, perché possano far ripuntare gli occhi su ciò che c’è di umano nella letteratura, nelle arti figurative. Secondo me una delle più grandi storture del sistema è questo. I detenuti, durante le lezioni, non sono sorvegliati a vista ma sono con il loro docente, quindi è un relativo spazio di libertà, perlomeno di libertà di discussione, di libertà interiore. Ma sappiamo benissimo che l’insegnante, anche se segue una persona per uno o più anni, non ha nessun diritto di espressione, di giudizio sul suo profilo, che viene invece deciso dai giudici che non l’hanno mai visto. Questo lo trovo semplicemente abnorme.
In una situazione di disagio, di sofferenza, di intolleranza qual è quella della clausura forzata, della costrizione è umanamente possibile che una persona, per degnarti della sua attenzione o per cercare di recuperare la sua attenzione, abbia uno stimolo forte
Quanto è importante lo spazio di libertà della parola e dell’espressione per un detenuto?
È uno spazio di libertà quello della lettura, della parola, della scrittura, del racconto di sé. Sono momenti determinanti che, oltre a questi frangenti, non so quanti spazi trovino generalmente in carcere, dove nel migliore dei casi (ed è importantissimo) trova spazio il lavoro, molto più che quel tempo necessario a uno studio delle parole o delle storie che sia, inevitabilmente, uno sguardo su loro stessi, come si fa con la letteratura. Leggiamo nel tentativo di capire meglio gli altri e noi stessi in relazione agli altri. È evidente che, nove volte su 10, chi è in carcere lo ha fatto poco come esercizio nella vita, quello di mettersi nei panni degli altri perché si è ritrovato delle vicissitudini troppo incombenti o interpretate in maniera troppo sbagliata. Invece credo sia un esercizio che non abbia nulla di erudito, ma che possieda degli specifici enzimi che attivano la riflessione su loro stessi..