di Sara De Carli. Pubblicato nel blog dell'autore in Vita.it l'11 luglio 2024.
Blessing sorride e soffia sulle candeline della torta dei suoi 18 anni. È sommersa di abbracci. «Discorso, discorso», gridano tutti. Le sue sono poche, necessarie parole: «Ho dentro un mix di emozioni incredibile. C’è la felicità e c’è la rabbia. Da una parte sono contenta, perché 18 anni sono 18, ma d’altra parte so che lascerò una parte di me, tante persone a cui tengo. Non pensavo succedesse così in fretta. È andata così», dice. Si fa silenzio. Blessing piange. La telecamera inquadra la torta che resta sul tavolo, mesta e sola. «Voglio andare fuori, non voglio la torta», dice lei.
La serie – realizzata con la supervisione di Daniele Vicari e Andrea Porporati, in collaborazione con la Società Psicoanalitica Italiana – dal 28 giugno è su RaiPlay e dal 7 luglio su Rai 3 in terza serata.
Chi sono i care leavers?
«La società si accorge di questi ragazzi nel momento in cui rompono le scatole, fanno sentire in colpa qualcuno, fanno sentire sbagliato qualcuno», dice l’introduzione di ogni puntata. «Sono storie che non arrivano quasi mai ad essere narrate eppure di raccontarle ce n’è un gran bisogno», dice Federico Zullo, presidente di Agevolando. I primi ad occuparsi dei ragazzi in uscita dalle comunità, al passaggio dei 18 anni, sono stati loro: «Molte cose sono cambiate, oggi c’è una consapevolezza e una sensibilità, la sperimentazione avviata nel 2019 ha permesso di avviare percorsi e di mettere alla prova strumenti a cominciare dal tutor… ma sui territori ci sono ancora moltissime differenze, che spesso si traducono in una situazione di ingiustizia», annota.
Ritrovarsi come Blessing fuori dalla comunità pochi giorni dopo i 18 anni, senza prosieguo amministrativo e senza un posto in cui andare, non è poi così strano: «Non è la norma, ma nemmeno un’eccezione. Il fatto è che non c’è una regola. Per questo è importante mettere a sistema l’esperienza fatta nei sei anni della sperimentazione, che ha supportato circa 2mila ragazzi». Pochi, se pensiamo che ogni anno escono dalle comunità circa 3mila ragazzi, per ragioni di età: per loro però il fondo sperimentale e i percorsi che ha sostenuto ha fatto davvero la differenza.
Non è una fiction: la ricerca su 454 care leavers
Diletta Mauri è assistente sociale e assegnista di ricerca all’Università di Trento. Ha lavorato a lungo con Agevolando prima del dottorato e da poco con Mara Sanfelici e Valerio Belotti ha pubblicato su “Child and Family Social Work” un articolo che riporta i risultati di una ricerca che ha coinvolto 454 care leavers italiani. Si tratta del campione più ampio mai coinvolto in una ricerca italiana nel settore.
Uno degli aspetti più originali della ricerca è l’aver indagato la percezione del benessere che i ragazzi fuori famiglia hanno, scoprendo la forte connessione tra il benessere e l’aver sperimentato percorsi di care partecipativi, in cui il proprio punto di vista è stato riconosciuto. Sul benessere rileva anche la percezione dell’esistenza di un percorso evolutivo per i genitori di origine.
Rispetto alle fasce d’età, spiega Diletta Mauri, «quelli che dichiarano di stare peggio sono i ragazzi con età compresa tra i 19 e 21 anni: questo evidenzia in modo chiaro quanto fase di transizione fra l’uscita dai percorsi di accoglienza in comunità o in affido e la vita autonoma sia una fase estremamente delicata anche da un punto di vista emotivo e quanto quindi vada curata».
La vicenda di Blessing narrata in “Zona protetta” è un’eccezione in cui magari si riflettono anche esigenze di storytelling o è la realtà, per quanto cruda?
Per il momento ho visto solo due puntate della serie, che mi sembra molto fedele alla realtà. Anche nell’episodio di Blessing. Ho conosciuto personalmente tanti ragazzi che hanno dovuto lasciare la comunità se non il giorno dopo il diciottesimo compleanno… quasi. Senza dubbio rispetto a 15 anni fa la sensibilità è molto cambiata, c’è molta più attenzione verso i care leavers anche grazie al lavoro di advocacy che è stato fatto in questi anni anche da Agevolando. Per esempio nelle nuove linee di indirizzo nazionali sull’accoglienza dei minori nei servizi residenziali e sull’affidamento familiare adesso è molto chiaro che la transizione di questi ragazzi in uscita dai percorsi di accoglienza va accompagnata.
Che cosa dice la ricerca su questo momento di passaggio, dall’accoglienza in comunità al camminare con le proprie gambe?
È evidente che le richieste di autonomia e indipendenza che si fanno a questi ragazzi – che abbiamo 18 anni e un giorno o 19 cambia poco – sono richieste che a nessun altro ragazzo d’Italia facciamo a quella età. È una richiesta sproporzionata, a maggior ragione perché questi ragazzi vengono da contesti con risorse minori. Il tema dei care leavers non è certo un tema nuovo per il welfare, in altri paesi le politiche di leaving care ci sono da decenni: è tempo che anche il nostro Paese, che tra l’altro ha politiche di welfare avanzate, faccia politiche strutturali anche per questi giovani.
Alcune ricerche all’estero hanno ragionato in questi termini, di come un investimento fatto andasse non perso ma vanificato. Hanno considerato per esempio il maggior rischio per questi ragazzi, se abbandonati a se stessi, di avere problemi di salute mentale, di finire a vivere per strada, di entrare nei circuiti della criminalità e i costi che questo comporta. È tutto vero, molti ragazzi si portano dietro una storia complessa e anche nell’episodio di Blessing si parla per esempio di psicofarmaci… I ragazzi peraltro questa domanda se la fanno sempre e la vivono come un’ingiustizia, legata alla grande percezione di abbandono: «Che senso ha tutto il cammino che abbiamo fatto, se adesso ci abbandonate?».
La vostra ricerca ha mostrato che fra tutti i ragazzi fuori famiglia, quelli che dichiarano di stare peggio sono proprio i ragazzi tra i 19 e 21 anni. Che significa?
La nostra ricerca ha una impostazione partecipata e anche l’analisi dei dati è stata fatta attraverso un confronto con i care leavers. Abbiamo indagato la percezione di benessere dei care leavers, cercando di capire quali sono le variabili che impattano maggiormente sulla percezione di benessere soggettivo. Come molte altre ricerche di questo tipo, anche la nostra evidenzia che le ragazze hanno dei livelli di benessere percepito più bassi degli uomini, in generale, mentre abbiamo rilevato delle differenze significative in base all’età. Tantissimi ragazzi vivono difficoltà molto grandi legate a una solitudine fortissima, che comporta poi un senso di smarrimento.
Nella ricerca si vede chiaramente come l’accesso agli studi universitari sia molto più basso tra i care leavers rispetto ai coetanei. Non ci stupisce, perché sono ragazzi che devono lavorare per pagarsi un affitto…
È un altro tema su cui si ragiona ancora troppo poco. È vero, non ci stupisce, ma il rischio è quello di avere uno sguardo al ribasso rispetto alle aspirazioni, alle aspettative e alle prospettive che i ragazzi che escono da percorsi di accoglienza possono avere. È evidente che questi ragazzi hanno esigenze di autonomia per cui si avvicinano prima al lavoro, ma è importante tenere alta l’attenzione sui diritti per cui anche loro, come tutti i giovani, possano – se lo desiderano – fare un percorso universitario. Ho conosciuto tanti care leavers che avrebbero voluto fare l’università ma non hanno potuto o che la stanno facendo a prezzo di grandissimi sacrifici. Il punto è non dare per scontato che i care leavers debbano rinunciare all’università.
sintesi di Alessandro Bruni
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