di Redazione. Pubblicato in Research4life del 19 luglio 2024
Sui media e sul web sono spesso riportate alte percentuali di fallimento dei farmaci che, testati negli animali, non risultano poi efficaci o sicuri negli umani. È segno che la sperimentazione animale non funziona? No, e qui spieghiamo il perché partendo da una recente meta-analisi che aggiorna le stime dei farmaci approvati per l’immissione in commercio.
Una recente meta-analisi pubblicata su PLOS Biology stima che solo il 5% circa dei farmaci testati sugli animali sia poi approvato dagli enti regolatori e possa entrare in commercio (e dunque nella pratica clinica). Di primo acchito, la percentuale sembra molto bassa. Ma per capirne il reale significato è importante contestualizzarla e, soprattutto, capire bene a quali processi fa riferimento. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
La nuova analisi di Benjamin Ineichen, del Centre for Reproducible Science dell’Università di Zurigo, e dei suoi colleghi indaga 122 revisioni sistematiche, cioè quegli studi che valutano e sintetizzano i risultati degli studi sperimentali in un determinato ambito. Complessivamente, queste revisioni combinavano i risultati di 367 studi dedicati a terapie per 54 diverse patologie umane.
Il gruppo di ricerca ha condotto una serie di analisi e valutazioni statistiche per stabilire quante, delle terapie proposte, arrivassero innanzitutto ai primi studi clinici sugli essere umani; quindi agli studi ampi, e nello specifico ai trial clinici controllati randomizzati (cioè nei quali i partecipanti sono assegnati, in modo casuale, a un gruppo sperimentale o di controllo). Infine, quante delle terapie inizialmente proposte fossero approvate dall’ente regolatorio per l’immissione in commercio. I ricercatori hanno stimato anche il tempo che è necessario per ciascuno di questi passaggi.
I risultati ottenuti sulla base di questa meta-analisi indicano che circa la metà delle terapie testate sugli animali arriva ai primi studi sugli esseri umani (e questa fase richiedere 5 anni); che il 40% arriva a essere testata in trial controllati randomizzati (in 7 anni) e che il 5% è poi approvato per l’immissione in commercio (in 10 anni). Per quanto riguarda la concordanza tra i risultati ottenuti negli animali uomini con quelli ottenuti negli animali, il gruppo di ricerca stima che ben l’86% dei risultati positivi siano concordi.
Concludiamo che, a differenza delle asserzioni diffuse, il tasso di successo per la translazione [di terapie] dall’animale all’umano è più alto di quanto riportato in precedenza, scrivono gli autori. Tuttavia, il basso tasso di approvazione finale indica che ci possano essere dei potenziali limiti sia nel design degli studi con animali, sia nei trial clinici iniziali.
Anche alla luce di queste considerazioni, è importante ricordare che il lungo percorso che parte dai test in vitro, arriva ai test sugli animali e infine a quelli sugli esseri umani rappresenta un percorso di selezione nel quale si scartano via via le molecole che dimostrano di non essere efficaci, cioè non danno benefici nel trattamento della patologia per la quale sono stati sviluppati, e/o causano effetti avversi rendendo sfavorevole la valutazione rischi-benefici (in altre parole, che rischiano di creare più danni di quelli che sono i benefici per la persona). È un processo altamente selettivo e prevede che da una fase all’altra vi siano farmaci scartati: significa che il processo di selezione funziona, limitando il numero di persone (ma anche animali, se si considerano le prima fasi precliniche in vitro) che sperimentano un farmaco non sicuro e/o poco efficace.
Della sperimentazione animale non possiamo oggi fare a meno: solo un organismo complesso può permetterci di capire davvero ciò che avviene alla somministrazione del farmaco. Intanto, comunque, la ricerca sui metodi alternativi avanza, consentendoci di limitare sempre più l’uso degli animali e rendendo più efficaci le prime selezioni di potenziali farmaci.
sintesi di Alessandro Bruni
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