di Redazione. Pubblicato in Unimondo del 2 agosto 2024.
Dalla metà degli anni '80, quando fu scoperto l'HIV e si dimostrò il nesso causale con l'AIDS, la ricerca per sviluppare un vaccino non si è mai arrestata. Ma nonostante l’impegno della comunità scientifica e una quantità ingente di ininterrotti finanziamenti, vi sono stati solo fallimenti (con un’unica, parziale eccezione): ora, però, la scoperta che una frazione di individui infettati produce anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro ha portato allo sviluppo di nuovi vaccini sperimentali, attualmente in fase di sperimentazione clinica, con strategie innovative come il Germline Targeting.
Nel suo libro autobiografico appena uscito, On call. A doctor’s journey in public health, Anthony S. Fauci, per 38 anni a capo del National Institute for Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, USA, si dichiara scettico sulla possibilità di scoprire un vaccino per prevenire l’infezione dell'HIV, causa della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), letale al 95% in assenza di terapia. Tuttavia, la necessità di un vaccino anti-HIV, soprattutto nei paesi più poveri con scarso accesso alla terapia antiretrovirale di combinazione (cART), rimane intatta.
Dopo un periodo caratterizzato solo dai fallimenti delle ultime sperimentazioni cliniche di fase III, un “pacchetto” di pubblicazioni uscite quasi contemporaneamente sulle principali riviste scientifiche rimette in gioco la possibilità di raggiungere questo Sacro Graal vaccinale. Ma riavvolgiamo il nastro prima di entrare nel merito.
Dopo la scoperta del virus nel 1983 per merito degli scienziati dell’Istituto Pasteur di Parigi, insigniti del Premio Nobel per la medicina o la fisiologia nel 2008, e la dimostrazione del nesso di causalità con l’AIDS nel 1984 (per merito del team USA guidato da Robert C. Gallo, non incluso nel Premio), è immediatamente scattata la ricerca di un vaccino: se ne prevedeva la scoperta «in un paio d’anni», come dichiarò Margaret Heckler, segretaria del Department of Health and Human Services statunitense. Mai previsione fu più sbagliata! Nonostante l’impegno della comunità scientifica e una quantità ingente di ininterrotti finanziamenti, la storia della ricerca di un vaccino ha collezionato solo fallimenti, con un’unica, parziale eccezione: lo studio RV144 condotto in Thailandia, che ha dimostrato una protezione di circa il 30% dei vaccinati rispetto ai controlli nei primi 3 anni d’infezione, come già discusso su Scienza in rete. Purtroppo, il risultato non è stato confermato da studi clinici successivi che, però, hanno modificato molti parametri rispetto a RV144 collezionando solo fallimenti.
Ma perché non è stato ancora possibile, fatta la parziale eccezione di cui sopra, ottenere un vaccino anche solo parzialmente efficace? Riassumiamo, sinteticamente, i motivi principali:
-
Non esiste eliminazione spontanea del virus da una persona infettata. Al nostro sistema immunitario manca quindi “il codice” di eliminazione del retrovirus, perché si integra nel genoma di linfociti T e macrofagi, garantendosi la persistenza “a vita”;
-
Il virus è caratterizzato da un’altissima variabilità spontanea. Il suo enzima chiave, la trascrittasi inversa (che copia il genoma virale a RNA in una versione a DNA in grado d’integrarsi nel genoma della cellula infettata) non è dotato della funzione di “correzione delle bozze”, presente in molti virus, inclusi i coronavirus della SARS e di COVID-19;
-
Gli anticorpi neutralizzanti (neutralizing antibodies, nAb) in grado di prevenire l’infezione si generano solo dopo diversi mesi dal contagio. La prima risposta anticorpale è infatti diretta contro lo scudo zuccherino che protegge la glicoproteina gp120 Env (la “chiave” utilizzata dal virus per legarsi al recettore primario d’ingresso, la molecola CD4, e il co-recettore chemochinico CCR5 o CXCR4), mentre i linfociti T specifici sono in grado di controllare la quantità di cellule infettate, ma non di eliminarle completamente (principalmente perché alcune cellule infettate albergano il virus integrato e latente, quindi “invisibile” al riconoscimento immunitario). Per inciso, nel caso dello studio RV144, la risposta immunitaria (parzialmente) protettiva non è risultata convenzionale, ma associata alla secrezione di anticorpi non neutralizzanti.
In questo scenario sconfortante, però, si è accesa una luce. La ricerca scientifica è un continuum, per cui spesso è molto difficile definire quale sia il momento in cui inizia una nuova fase in un determinato ambito di ricerca. Nella lunga storia della ricerca di un vaccino anti-HIV, un punto di svolta scientifico, alla base degli studi in oggetto, è stato aver dimostrato che una frazione non piccola (il 10% circa) degli individui infettati produce, seppur tardivamente, anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro (broadly neutralizing Ab, bnAbs) dotati spesso di una straordinaria efficacia; infatti, alcuni sono oggi utilizzati come farmaci complementari o alternativi ai classici farmaci antiretrovirali...