di Andrea Gandini. Economista, analista del futuro sostenibile.
Secondo l’ONU gli immigrati nel 2020 erano nel mondo 280 milioni (erano 153milioni nel 1990). Negli ultimi 30 anni sono dunque quasi raddoppiati (+127 milioni). L’accelerazione è dovuta alla globalizzazione e alle crescenti disuguaglianze. I paesi di destinazione sono soprattutto quelli ad alto reddito con 182 milioni di immigrati (erano 76 milioni nel 1990, più che raddoppiati). Il flusso maggiore in valore assoluto si dirige negli Stati Uniti (ora sono 51 milioni gli immigrati legali, erano 23, ma almeno altri 10 sono illegali), seguiti da Germania (15,8 erano 6), Arabia Saudita (13,5 milioni erano 5), Gran Bretagna (9,4 milioni erano 3,6), Emirati Arabi Uniti (8,7, erano 1,3), Francia (8,5, erano 5,9), Canada (8, erano 4,3), Australia (7,7, erano 4), Spagna (6,8, erano 0,8), Italia (6,4, erano 1,4), Turchia (6, erano 1,1). Nei grandi paesi (Cina, India, Brasile sono meno che in Italia, tranne in Russia dove sono 11 milioni ma stabili o addirittura in regresso come in Pakistan (da 6,2 milioni a 3,2) o in Iran.
La tabella a fianco ordina i Paesi in modo decrescente in base alla rapidità dell’immigrazione (var. % degli ultimi 30 anni) nei primi 29 paesi al mondo per quantità di immigrati al 2020. Come si può notare per quantità sono primi gli Stati Uniti con 51 milioni di immigrati legali, ma ai primi posti per rapidità dei flussi sono: Spagna, Oman, Tailandia, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Malesia, Italia (al 7° posto assoluto nel mondo). Cosa ci dice questa tabella? Che gli immigrati sono innanzitutto un problema dell’Occidente ricco, una sorta di frutto (avvelenato?) della globalizzazione avviata dall’Occidente stesso e che i paesi più “a rischio” sono quelli dove l’immigrazione è più rapida, dove le reazioni dei cittadini nativi-autoctoni possono essere più forti. E tra i primi 7 Paesi ci sono Spagna e Italia. Gli altri Paesi non occidentali sono arabi musulmani, tranne la Tailandia (buddista con 72 milioni di abitanti ma con metà immigrati dell’Italia), dove però gli immigrati non sono un problema (anzi) in quanto vengono sfruttati e non sono in concorrenza coi nativi. Il numero nella prima colonna indica la posizione del paese in base alla quantità assoluta di immigrati al 2020 (l’Italia è 11^ al mondo).
Nel mondo ci sono tre modelli prevalenti di accoglienza dell’immigrazione: 1) quello dei paesi arabi musulmani che sfruttano in modo violento gli immigrati e concedono zero diritti; 2) il modello europeo e Usa che cercano (in modi diversi) di integrare col lavoro gli immigrati, dare diritti, ma anche di contrastarne l’afflusso eccessivo, anche se una parte degli imprenditori sfrutta volentieri gli immigrati, tanto più se sono illegali; 3) il modello “New Zealand” che seleziona in ingresso in modo durissimo l’immigrazione con una sorta di patente a punti e in base ai soli propri fabbisogni e che produce forte immigrazione ma tutta legale, favorita dalla posizione isolata che impedisce arrivi illegali.
L’immigrazione ha accelerato i suoi flussi con la globalizzazione favorita dalla deregolamentazione del 1999 delle merci, dei capitali e della finanza (promossa dagli Stati Uniti con l’entrata della Cina nel WTO) che ha prodotto una crescente disuguaglianza e delocalizzazione delle produzioni dai paesi occidentali verso quelli emergenti. Oggi però l’Occidente, che ha favorito la globalizzazione, ne è anche la principale vittima in quanto fa i conti con ampi strati sociali colpiti dalla “concorrenza” degli immigrati: operai, poveri che così votano in prevalenza a destra. Un problema che i BRICS non hanno, mentre i paesi arabi usano gli immigrati in modo spregiudicato per arricchirsi ulteriormente. Per questo (a mio avviso) non vanno sottovalutate le proteste anti-immigrati che potrebbero (prima o poi) portare a svolte autoritarie.
Il recente Rapporto 2023 del Ministero del Lavoro (su dati del 2022) sulla presenza degli stranieri in Italia nel mercato del lavoro (https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita-immigrazione/focus/xiii-rapporto-mdl-stranieri-2023), mostra che su 23,6 milioni di occupati gli stranieri extra Ue sono 1,7 milioni a cui si aggiungono 700mila stranieri comunitari (intra UE). Nel complesso sono 2,4 milioni, pari al 10% degli occupati. Il loro salario medio è di 16.392 euro rispetto ai 24.592 degli italiani (-30,7%) ma il tasso di infortuni è doppio (sono coinvolti nel 20% del totale infortuni). Per i dipendenti a tempo indeterminato (i più favoriti) la retribuzione è pari a 20.073 rispetto ai 28.519 degli italiani. La presenza maggiore è in agricoltura (40% delle nuove assunzioni) e in edilizia (34%) dove nel 2022 si sono assunti 9mila stranieri mentre gli italiani si riducevano di 29mila unità. Il differenziale di paga tra uomini e donne tra gli stranieri è maggiore di quello tra gli italiani, così come per il tasso di occupazione: uomini stranieri 75%, donne straniere 45,6%. In Italia il reddito medio degli stranieri hanno uno dei valori più bassi nella UE rispetto a quello dei nativi (70%) e uno su 3 vive in povertà rispetto a 1 su 4 nella media UE.
Gli stranieri occupati sono dunque circa il 10% del totale occupati, un dato analogo a quello degli abitanti (6,4 milioni, 10,6%). Dati nel complesso ancora piccoli se confrontati con quelli dei paesi a maggior tradizione di immigrazione come per esempio la Gran Bretagna (13,8%), Germania (18,8%), Stati Uniti (15,3%), Svezia (20%), per non parlare di New Zealand con 29% (vincitrice anche in queste Olimpiadi). Ma come abbiamo detto prima ciò che preoccupa è il ritmo accelerato di ingresso che vede l’Italia molto esposta.
Percentuale di immigrati sulla popolazione al 1990 e 2020 e var.assoluta negli ultimi 30 anni
L’immigrazione in Italia è tipica di un paese a declino demografico che dovrà fare “di necessità virtù”, in quanto senza immigrati, non sarà in grado nei prossimi 20 anni di pagare pensioni e sanità ai propri cittadini. Ovviamente più l’immigrazione sarà legale meno produrrà conflitti con gli autoctoni e la fascia più debole dei cittadini e più entrate arriveranno allo Stato italiano al fine di finanziare il welfare di tutti.
Il caso degli Stati Uniti è invece diverso. Qui siamo in presenza di una crescita tumultuosa anche demografica, dove gli ispanici sono triplicati (erano 14,6 milioni nel 1980 e sono 62,1 milioni nel 2020, dal 6,5% al 18,8% dell’intera popolazione). Gli Stati Uniti sono una nazione con una enorme crescita demografica e in 40 anni sono cresciuti di un terzo: da 226 milioni del 1980 a 331 milioni nel 2020. E’ come se in Italia fossimo passati da 60 a 90 milioni. Gli immigrati si concentrano inoltre in alcune aree (dove già sono presenti) e ciò spiega l’allarme sociale di alcune città dove questa crescita raggiunge livelli altissimi che portano a giganteschi problemi sociali e rischiano di impedire alle stessa polizia di entrare in certe aree controllate dagli immigrati (come avviene anche in alcune zone della Gran Bretagna). Per fare qualche esempio a Los Angeles gli immigrati sono passati in 40 anni dal 26% degli abitanti al 48%, a Miami dal 36% al 69% (https://www.pewresearch.org/race-and-ethnicity/feature/hispanic-population-by-county/).
L’immigrazione è di per sé un aspetto positivo perché porta a conoscere diverse culture, è fonte di innovazione e creatività, ma quando diventa troppo rapida può generare crescenti conflitti proprio con la parte più debole degli autoctoni e non a caso sono spesso gli immigrati di prima generazione che protestano per l’arrivo di quelli di seconda generazione.
Oltre al tema degli immigrati i paesi occidentali hanno a che fare con la crescente disuguaglianza e l’imbarazzante crescita dei super ricchi che hanno generato, mentre 2/3 dei loro cittadini o impoveriscono o non riescono più ad aumentare il loro reddito. Due tra i più importanti politologi americani (Jacob Hacker e Paul Pierson) hanno scritto un libro nel 2020 (Let Them Eat Tweets.How the Right Rules in an Age of Extreme Inequality, Liveright Publishing Corporation), in cui analizzano l’influenza dei super ricchi sulla politica degli Stati Uniti e come cambia col loro intervento il funzionamento dei governi democratici. Le cose iniziano a cambiare negli anni ’60, quando viene abbandonata l’imposta progressiva che negli Stati Uniti raggiungeva il 94% sui redditi oltre 400mila dollari all’anno. Da allora, secondo gli autori, ma soprattutto a partire dagli anni ’80 cresce un modello di governo negli Stati Uniti che definiscono “plutocrazia”, intesa come “governo dei e per i ricchi”. Aumentano enormemente le disuguaglianze sociali, i super ricchi accumulano ricchezze senza precedenti (0,1% possiede il 90% dei patrimoni) che influenzano sempre di più i partiti (si pensi che la campagna elettorale attuale USA costa circa 14 miliardi di dollari), sia quella dei Dem che di Trump. Nascono organizzazioni internazionali come il WEF, World Economic Forum (che si tiene annualmente a Davos), fondato da Klaus Shwab, uno studente di Henry Kissinger ad Harvard, il cui obiettivo è influenzare i Governi muovendosi col potere dei soldi dietro le quinte.
Al crollo del comunismo in Urss è subentrato Eltsin che ha introdotto il libero mercato in modo brutale (su consiglio dei repubblicani Morris, Dresner, Gorton, Shumate al seguito di Bill Clinton) portando a un decennio disastroso e di miseria per i russi al punto che le famose e integerrime insegnanti russe erano costrette per sopravvivere a vendere giornali pornografici nei metrò. Lo scrittore dissidente Aleksandr Solzenicyin dirà: “la peggiore via tra quelle possibili per uscire dal comunismo”. Disastri di allora ben iscritti oggi nella memoria dei russi che, non a caso, votano in massa per Putin oggi e ancora nel 1996 davano il 40% dei voti al partito comunista.
Disuguaglianze, crollo del comunismo e potere dei super ricchi (2mila i miliardari negli Usa secondo Forbes) hanno influenzato il partito Democratico e di più, quello Repubblicano. Quando però la crescita delle disuguaglianze diventa enorme pone un serio dilemma: come mantenere il consenso delle masse popolari colpite proprio dalle politiche liberiste suggerite dai super ricchi?
Jacob Hacker e Paul Pierson sostengono che ciò ha avuto effetti in Usa soprattutto sul partito Repubblicano che da conservatore-moderato è diventato un partito radicale di destra, sviluppando temi che non incidono sulle condizioni economiche dei più poveri o dei cittadini comuni, ma raccolgono il loro consenso aizzandoli su temi molto emotivi e sensibili legati al conflitto di razza, religione, di cui l’immigrazione è il principale. Questo fenomeno si è avuto secondo i due studiosi in due momenti storici: il 1° a cavallo fra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, quando i partiti Conservatori-Liberali hanno dovuto scegliere una strategia politica con chance di successo (elettorale e di consenso) in una fase in cui si affermava il suffragio universale (anche se solo maschile), che portava con sé il rischio di vittorie dei partiti progressisti/socialisti. In Occidente i partiti conservatori-liberali hanno risposto in due maniere completamente differenti a tale dilemma. Da un lato, vi è stata la strategia dei Tory in Gran Bretagna e dei Repubblicani negli U.S.A., che ha mescolato concessioni nella redistribuzione delle ricchezze con un crescente radicamento del partito e delle associazioni attorno al partito nelle comunità locali. Dall’altro, vi è stata la strategia dei conservatori tedeschi, che ha aperto la strada alla destra radicale del Partito Nazista.
Il 2° momento storico sta avvenendo negli ultimi 30 anni, in quanto l’aumento stratosferico delle diseguaglianze sociali rischia di compromettere l’idea di una democrazia che si basa (di fatto) sul crescente potere delle élite dei ricchi (che sostengono partiti conservatori-liberali loro vicini). Se la crescente diseguaglianza (e le politiche pubbliche dei partiti conservatori, in primis quelle fiscali) fanno perdere consenso elettorale a tali partiti, questi ultimi possono essere tentati di adottare una strategia, che cerca di spostare l’attenzione dai temi economici ai temi culturali-identitari-emozionali che provochino altre divisioni sociali, abbastanza forti, da attrarre un sostegno politico duraturo da parte delle classi lavoratrici e medie, come le divisioni razziali, etniche, religiose, i diritti delle minoranze lgbtq+, il richiamo al nazionalismo, al protezionismo, a guerre contro il “nemico” e soprattutto l’opposizione all’immigrazione. Il risultato secondo Hacker e Pierson è l’affermarsi di un ‘populismo plutocratico’, in cui il ricorso a discorsi populisti, basati sulla contrapposizione etnica e/o religiosa, è la maniera tramite cui cercare di mantenere fedeli al proprio partito quelle fasce di lavoratori, di classe operaia e media, che soffrono economicamente delle politiche ispirate dalle élite ricche della popolazione. Fin qui l’analisi dei due studiosi.
Aggiungerei che, oltre ai Repubblicani, anche i Democratici americani (Clinton, Hillary, Obama, Biden – non certo Sanders e la sinistra radicale del partito DEM-) hanno favorito questi processi negli ultimi 25 anni con la globalizzazione, liberalizzazione, de-localizzazione delle imprese in paesi a basso costo del lavoro, forte immigrazione con effetti profondi sulla riduzione del salario dei lavoratori americani che sono caduti fino all’arrivo di Trump nel 2016 che ha assunto questi temi a difesa degli operai bianchi della “rust bell” per vincere le elezioni. Ecco perché è importante capire quanto e come le strategie dei singoli partiti cambiano e tutelano o meno le reali condizioni socio-economiche dei propri lavoratori/cittadini e come vengono contrastate (o meno) le disuguaglianze (al di là delle ideologie e delle fumisterie sui nuovi diritti che non costano alle imprese). E’ infatti vero, come dicono i due politologi americani, che si cerca di “distrarre” gli elettori, ponendo al centro temi che non hanno un impatto sui costi delle imprese (come i diritti civili) o sulla liberalizzazione (come l’immigrazione), ma che hanno un enorme impatto emozionale e un effetto molto concreto di concorrenza salariale sugli autoctoni.
Ecco perché sarebbe bene parlarne anche nel caso dell’Europa che ha (ancora) meno disuguaglianze degli Stati Uniti, ma che vede processi analoghi. La recente vittoria del Labour in Gran Bretagna è stata, come sappiamo, molto risicata nelle percentuali (dal 32,2% del 2019 al 33,7% del 2024) ma enorme nei seggi (da 198 a 412) per via del sistema uninominale che consente di vincere nei 650 collegi anche solo con un voto in più dell’avversario. I Verdi che hanno quasi triplicato i voti (dal 2,2% al 6,8%) hanno preso solo 4 seggi e così Farage (destra anti immigrazione) ha preso solo 5 deputati ma è cresciuto dal 2% al 14,3%. Proprio l’affermazione del partito di Farage (Reform UK) ha tolto il primato ai Conservatori (scesi dal 43,6% del 2019 al 23,7%) in modo da farli perdere in moltissimi collegi e far prevalere il Labour.
Se però Farage ha messo in conto una vittoria del Labour in queste elezioni è perché pensa di vincere le prossime, puntando sulla lotta all’immigrazione, così come aveva vinto nel 2016 con il referendum sulla Brexit. Tony Blair, che rimane uno “sveglio”, al di là della nostra simpatia o meno, ha infatti suggerito a Starmer di occuparsi da subito del problema degli immigrati (oltre a non cedere alle sirene della cultura woke), se vuole mantenere questo successo anche tra 5 anni. Un tema che vale anche in Italia e Francia dove le destre sono cresciute in modo enorme agitando la paura degli immigrati.