di Alfredo Marra e Margherita Ramajoli. Pubblicato nella Rivista Il Mulino del 30 luglio 2024.
Il taglio ai finanziamenti dell’università che ha generato lo scontro tra la ministra Bernini e la Conferenza dei rettori costituisce solo l’ultimo (in ordine di tempo) tema caldo sul tavolo dell’agenda politica universitaria. All’inizio di giugno il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge-delega che affida al governo il compito di riordinare e razionalizzare quasi ogni aspetto della vita universitaria: dalla cosiddetta governance al reclutamento dei professori e ricercatori, dall’internazionalizzazione allo stato giuridico ed economico dei docenti, dalla didattica al diritto allo studio.
Che la macchina universitaria, a distanza di quattordici anni dalla grande riforma del 2010, abbia bisogno di qualche intervento di manutenzione è fuori discussione. Come ogni manutenzione, infatti, anche quella dell’università serve a prevenire i malfunzionamenti dovuti all’usura del tempo, a preservare l’integrità della macchina e a garantire che essa continui a operare adeguatamente. Tuttavia, sarebbe poco utile – e forse persino dannoso – mettere mano a un riordino della disciplina senza prima aver chiarito la direzione verso cui si vuole andare.
Prima di entrare nel dettaglio delle regole – e anche della loro formulazione, questione che non è mai secondaria – occorrerebbe aprire una discussione, ampia e partecipata, sui principi e sui valori in gioco, alla ricerca del maggiore consenso possibile su quelli che dovrebbero ispirare il riordino e la razionalizzazione della disciplina vigente. Bisogna partire dalla condivisione che l’università, pur con i suoi limiti, costituisce ancora uno straordinario patrimonio del Paese e come tale dovrebbe essere considerata, anzitutto dal governo.
Il primo valore è l’autonomia. In che cosa esattamente consista l’autonomia universitaria di cui parla la Costituzione quando afferma all’articolo 33 che “le università hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi” è questione sulla quale gli studiosi si sono a lungo affannati. Marco Cammelli ha scritto che in Italia si sono fronteggiati storicamente due modelli di autonomia universitaria:
- un modello forte, sostenuto soprattutto dalla dottrina, in base al quale le università sono istituzioni distinte dallo Stato e l’autonomia, proprio in quanto tale, non ha bisogno di una legge che ne stabilisca i limiti;
- un modello debole, realizzato in concreto anche grazie alla Corte costituzionale, in cui le università godono di uno spazio di autonomia accordato dallo Stato in misura più o meno ampia e in cui la legge è necessaria per conformare l’autonomia.
Dunque, il primo valore che dovrebbe orientare il riordino del sistema è proprio l’autonomia delle università, da intendersi finalmente nel suo senso forte, come spazio effettivo di autoregolamentazione. Ciò permette di ricondurre l’autonomia al suo fine originario, che è garantire la libertà, e presuppone definire a monte quali regole debbano essere uguali per tutti e quali invece possano e debbano essere lasciate all’auto-ordinamento dei singoli atenei.
Il secondo valore, strettamente connesso all’autonomia, è la semplificazione. Anche se si tratta di parola abusata e spesso ridotta a slogan, la semplificazione costituisce una vera necessità, come sa bene chiunque lavori in università. Qui le complicazioni nascono anzitutto dal fatto che la legislazione è sempre stata abbondante e stratificata nel tempo. Il problema negli anni più recenti si è acuito. Da una parte, la riforma del 2010 ha provocato un’alluvione di decreti attuativi e, conseguentemente, un eccesso di norme. Dall’altra parte, le università sono state assimilate dal legislatore alle altre amministrazioni e come tali sono destinatarie anche delle tante discipline generali applicabili a queste ultime.
A questa situazione, già di per sé non desiderabile, si è aggiunta una vera e propria iper regolazione, vuoi mediante una produzione alluvionale di decreti ministeriali, linee guida, atti dell’Anvur variamente denominati, vuoi per effetto dell’emanazione di una copiosa normativa interna (statuti e regolamenti) da parte degli atenei. Il risultato è una giungla di norme, spesso non coordinate tra loro, che hanno soprattutto l’effetto di irrigidire l’organizzazione e rallentare l’azione delle università.
È una giungla di norme, spesso non coordinate tra loro, che hanno soprattutto l’effetto di irrigidire l’organizzazione e rallentare l’azione delle università. La complicazione normativa, peraltro, è accompagnata anche dalla complicazione amministrativa. Sotto questo profilo si è assistito negli ultimi anni a una vera e propria ossessione burocratica, soprattutto per effetto – certamente non voluto – dell’azione dell’Anvur.
Il terzo valore è la cooperazione. Negli ultimi anni sono stati introdotti meccanismi di competizione regolata tra gli atenei per l’acquisizione delle risorse statali (anzitutto la cosiddetta quota premiale del Fondo di finanziamento ordinario) e degli studenti migliori.
Prendendo atto di questo dato, occorrerebbe allora incentivare lo sviluppo di politiche collaborative tra gli atenei, anzitutto nella costruzione di reti di ricerca, sul modello di quanto avvenuto con alcuni progetti finanziati dal Pnrr, al fine di favorire la creazione di quella massa critica indispensabile in determinati settori strategici e la circolazione dei ricercatori e degli studenti tra i diversi atenei.
sintesi di Alessandro Bruni
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