di Sandro Spinsanti. Sguardi alla prossimità e all'etica della salute. Pubblicato nel blog dell'autore il 24 luglio 2024.
La decisione di Joe Biden di confermare la sua candidatura per un altro mandato presidenziale o di ritirarsi dalla competizione ha tenuto col fiato sospeso l’intero teatro politico mondiale per giorni e giorni. Ora la tragicommedia (o “Hilarotragoedia”, come l’avrebbe chiamata Giorgio Manganelli) si è risolta con il suo passo indietro. Che cosa ne ricorderemo, quando vorremo ripercorrere i dibattiti che si sono incrociati in questi giorni? È probabile che in ambienti sanitari si continuerà a sorridere su una delle dichiarazioni di Biden: “Mi ritirerò dalla candidatura se me lo consiglierà il medico”. Una frase furba o ingenua? Sicuramente un’affermazione anacronistica.
Sembra voler ricondurre la decisione a una consulenza personale dentro un contesto di rapporto fiduciale di altri tempi, quando ci si affidava al medico attribuendogli decisioni da prendere “in scienza e coscienza”, in quanto nella professionalità si intendeva inclusa la facoltà di stabilire il miglior interesse del malato. Se già questo modello di rapporto è decaduto a livello individuale – proprio dagli Stati Uniti è partita l’onda lunga della bioetica, veicolando un cambio di paradigma che ha fatto dichiarare superata ovunque l’etica medica tradizionale, di stampo paternalistico, che autorizza il medico a fare le scelte per la persona malata – è del tutto fuori posto evocarlo nello scenario pubblico.
Possiamo immaginare una consultazione familiare per stabilire se è opportuno o no che il nonno, considerate le sue condizioni di salute, continui a guidare l’auto; ma diversa è la situazione che si è venuta a creare negli Stati Uniti: una nazione intera che si domanda se colui che si candida alla presidenza del paese si trovi nelle condizioni fisiche e mentali necessarie richieste dal ruolo. Una questione di non secondaria importanza è stabilire il ruolo che spetta ai professionisti sanitari in questo contesto. Tutti si interrogano, preoccupati dello stato di salute di Biden; ma quando a porsi la questione sono dei medici, lo scenario è diverso. Da una parte hanno indubbiamente competenze maggiori per riconoscere le patologie rispetto a un comune cittadino; dall’altra però hanno anche dei vincoli limitanti. Ciò ci induce a focalizzare la nostra attenzione sull’etica clinica. La riflessione può essere rilevante anche per professionisti che si situano dall’altra parte dell’oceano, e quindi non coinvolti in prima persona.
I medici e le diagnosi da remoto
Un primo nodo riguarda la facoltà dei medici di fare diagnosi al di fuori del contesto clinico. Le gaffe, la memoria lacunosa, l’andatura incerta del presidente Biden hanno attirato l’attenzione non solo dei cittadini, ma anche dei medici. “Doctors are increasinly worried about Biden”: è il titolo esplicito di un articolo apparso su The New Yorker il 18 luglio 2024 (1). L’autore è un medico, Dhruv Khullar, che ha intervistato nove colleghi, di differenti specializzazioni. Consapevoli che non è corretto fare diagnosi da remoto e soprattutto commentando la salute di figure pubbliche (l’American Medical Association nel 2017 ha dichiarato ufficialmente che i medici devono astenersi dal fare diagnosi cliniche su individui che non abbiano avuto la possibilità di esaminare personalmente), i medici intervistati hanno tuttavia manifestato preoccupazione per comportamenti valutabili come non normali. La loro conclusione è che i sintomi di Biden possano andare al di là di un graduale declino dovuto all’età e che potrebbero essere potenzialmente attribuiti a qualcosa di più serio, come un significativo decadimento cognitivo o una condizione neurodegenerativa. Anche limitandosi a impressioni di pancia, i medici intervistati per lo più ritenevano ragionevole considerare disordini neurologici.
Pur con le competenze che devono essere loro riconosciute per l’esercizio professionale, i medici in un contesto che esula dalla relazione clinica esprimono giudizi non molto più qualificati di quelli di un comune cittadino che si affida alle proprie impressioni. Dobbiamo prendere le distanze da dichiarazioni che ci è capitato di raccogliere dalla stampa, del tipo: “Nella mia esperienza di geriatra/neurologo/fisiatra il comportamento che vedo dell’aspirante futuro presidente è/non è attribuibile al parkinsonismo… Si tratta di normale senescenza; no: è una patologia in atto”. In questi casi sobrietà fa rima con serietà.
La privacy in contrasto con il pubblico interesse
Una seconda questione riconducibile all’etica clinica è quella relativa alla segretezza di ciò che il medico viene a conoscere nel contesto terapeutico: quando il professionista della salute individua una situazione che costituisce una minaccia per terze persone, è autorizzato a infrangere la privacy che lo vincola al malato e gli impedisce di diffondere informazioni senza il suo consenso? È l’oggetto della riflessione della bioeticista Sara Rosenthal: “Clinical Ethics and a President’s Capacity: Balancing Privacy and Public Interest”, apparsa nello Hastings Bioethics Forum l’11 luglio 2024 (2). Il bilanciamento in questione è tra il diritto del presidente Biden di tenere riservate le proprie condizioni di salute e il diritto del pubblico di conoscere ciò che può costituire una minaccia. L’etica clinica sottolinea esplicitamente la riservatezza come condizione per una solida relazione terapeutica.
Per i medici italiani è sufficiente riaprire il loro codice deontologico nel capitolo su “Doveri e competenze del medico” per trovare l’obbligo del segreto professionale (art. 10), della riservatezza dei dati personali (art. 11) e del trattamento dei dati sensibili, “idonei a rivelare lo stato di salute della persona”, che possono essere fatti conoscere solo con il consenso della persona stessa (art. 12). E tuttavia i medici conoscono bene situazioni in cui la confidenzialità si scontra con il dovere di proteggere chi potrebbe ricevere un danno dal comportamento della persona in cura. In tali casi è obbligatorio allertare le istituzioni regolatrici: basti pensare alle malattie infettive e alle condizioni che contrastano con una guida automobilistica sicura.
Non a caso Sara Rosenthal nel suo articolo per contestualizzare il necessario equilibrio tra l’interesse individuale e la prevenzione di danni a terzi menziona il caso Tarasoff. Fuori dagli Stati Uniti la vicenda di Tatiana Tarasoff, che ha sconvolto la comunità studentesca all’epoca della grande contestazione degli anni 1968-69, è per lo più nota solo agli studiosi di bioetica; in America invece evoca una questione che ha avuto ampia risonanza, fino ad arrivare a sentenze della Corte Suprema della California. Basta menzionare il nome di Tarasoff per far apparire una rete di diritti e doveri intrecciati. In termini essenziali, riguarda uno psichiatra che aveva avuto in terapia uno studente dell’università di Berkley. Nel contesto terapeutico il paziente dichiara allo psichiatra che progetta di uccidere Tatiana Tarasoff, che non accettato il suo corteggiamento ed è andata in vacanza. Il terapeuta, tutelando la confidenzialità e puntando sul rapporto terapeutico, non informa la potenziale vittima, che viene di fatto uccisa al suo ritorno. Venuta a conoscenza dei precedenti, la famiglia della vittima denuncia il medico per l’omesso avvertimento. L’ampio dibattito ha avuto una connotazione sia etica che politica. Si sono scontrate due posizioni contrapposte: chi accusava lo psichiatra di negligenza professionale e chi invece sosteneva l’importanza del rispetto della confidenzialità come elemento strutturale della professionalità di cura (argomentando che è proprio la confidenzialità che induce le persone a cercare l’aiuto psichiatrico). La complessa vicenda giudiziaria è culminata con la sentenza della Corte Suprema della California, che ha stabilito dei limiti al privilegio confidenziale che protegge il rapporto medico-paziente: questo finisce dove comincia il pericolo pubblico. Secondo la Corte Suprema, “la particolare forma di rapporto che intercorre tra terapisti e paziente avrebbe determinato per il terapista il dovere di avvertire la vittima”. La confidenzialità (privacy) è scavalcata dal pubblico interesse per la sicurezza dall’aggressione violenta.
Diagnosi mediche come strumento di attivismo politico
Chiamando in causa il caso Tarasoff nel contesto del bilanciamento tra diritto alla privacy e pubblico interesse nel contesto del dibattito sullo stato di salute di Biden Sara Rosenthal apparentemente fa appello a conoscenze consolidate di etica clinica. In realtà propone surrettiziamente un salto di qualità, che amplia i limiti dell’etica clinica: quello che è acquisito nel contesto psicosociale, ovvero l’obbligo di denunciare quando un paziente è un agente di un danno potenziale, viene esteso allo scenario politico generale. Non solo i medici vengono autorizzati a formulare le loro diagnosi sullo stato di salute del candidato alla presidenza, ma implicitamente si chiede loro di avvertire la popolazione del pericolo incombente costituito da un futuro presidente che non abbia la dotazione di salute necessaria per il ruolo.
La questione riguarda l’equiparazione del contesto psicosociale individuale con quello politico relativo alle capacità di esercitare le funzioni che competono al presidente. Esistono norme che regolano situazioni in cui un responsabile politico di vertice non sia in grado di governare: regole che riguardano la morte improvvisa o uno stato di incapacità. Il dibattito intorno a Biden concerne invece il diritto dei cittadini di conoscere lo stato di salute e, più in generale, la capacità di espletare l’eventuale mandato. Un capo di stato – e un candidato futuro presidente – non è un privato cittadino, cui va riconosciuto il diritto di ignorare il proprio stato di salute. Basti rifarci ancora alle parole con cui Biden ha giustificato la performance deficitaria nel dibattito con Trump: “Ho avuto una pessima notte. Non so perché”. Può voler ignorare se è affetto da un degrado cognitivo; ma il compito di informazione da recapitare a una persona, volente o nolente, può essere attribuito al singolo professionista sanitario?
Questa sembra la preferenza di Sara Rosenthal, in nome del pubblico interesse: se il presidente rifiuta di rendere pubblico il suo stato di salute, allora al medico del presidente va riconosciuto il diritto etico di informare i cittadini sulla sua condizione sanitaria, date le sconvolgenti conseguenze dell’elezione e il potenziale pericolo a cui va incontro il paese. Quasi che il paese stesso si trovi in una situazione analoga a quella di Tatiana Tarasoff. Non abbiamo difficoltà a riconoscere una forzatura dell’etica clinica nella richiesta al medico di un intervento che assomigli a un attivismo politico, per proteggere i cittadini minacciati.
Più auspicabile semmai immaginare che un compito di questo genere possa essere attribuito a una commissione ufficiale indipendente. Sappiamo che le malattie di cui hanno sofferto i potenti di tutto il mondo sono state per lo più gestite tenendole nascoste o mentendo. Con la complicità dei medici coinvolti. Basti pensare alle informazioni che hanno accompagnato la fine di leader politici come Francisco Franco in Spagna o Tito in Jugoslavia. Anche le vicende sanitarie di diversi presidenti americani sono riconducibili a sceneggiate politiche. Immaginare la trasparenza in questo ambito è un’ingenuità.
Non è solo una questione di opportunismo; non è fuori luogo invocare l’etica. Già all’inizio del XX secolo Max Weber nella sua celebre lezione La politica come professione (3) vedeva in trasparenza l’etica della responsabilità come antitesi simmetrica all’etica che si ispira ai principi. Mentre quest’ultima richiede di modellare i comportamenti sui principi etici, da rispettare costi quello che costi, l’etica della responsabilità guarda non a monte, ma a valle, considera cioè le conseguenze delle azioni; e talvolta per evitare di procurare danni può chiedere compromessi sui principi. Di quest’etica soprattutto si nutre la politica.
Conclusione: ”Setting limits”
Sarà opportuno, dunque, non confondere i piani, chiedendo all’etica clinica di assumere un ruolo che non è il suo. È bene che rimanga nel contesto che le è proprio, rispettando le regole che è andata elaborando nel tempo. Alla convocazione dei medici affinché abbraccino la causa del pubblico interesse proposta dalla bioeticista Rosenthal contrapponiamo l’esortazione che ha fornito il titolo a una delle opere più illuminate del grande filosofo Daniel Callahan, che dello Hastings Center è stato l’ispiratore: Setting limits (4). Provocatoriamente Callahan auspicava dei limiti da introdurre nei servizi sanitari in una società sempre più gravata dall’invecchiamento. Magari – aggiungeremmo nel contesto del dibattito attuale – anche dei limiti cronologici per i candidati a funzioni politiche, considerando che con la grande età cresce la percentuale di cronico decadimento. In ogni caso riconoscere certi limiti è un punto di forza per l’etica clinica, che i professionisti della cura si impegnano a rispettare. Proteggere la pratica medica da contaminazioni ed equivoci è un compito di civiltà.
Riferimenti bibliografici
- Dhruv Khullar: Doctors are increasinly worried about Biden. The New Yorker, 18 luglio 2014.
- Sara Rosenthal: Clinical Ethics and a President’s Capacity: Balancing Privacy and Public Interest, Hastings Center Forum, 11 luglio 2024.
- Max Weber: La politica come professione, tr. It. Armando, Roma 1997.
- Daniel Callahan: Setting limits. Medical goals in an aging society, Georgetown University Press, Washington 1995.