di Robert Kagan. Pubblicato in Linkiesta del 12 agosto 2024.
Le forze illiberali sanno bene che il tempo, la demografia e il sistema stesso stanno lavorando insieme contro di loro. La natura del Paese è cambiata troppo. E il suprematismo bianco sta perdendo la sua percorribilità come piattaforma politica mano a mano che la popolazione bianca diminuisce. L’unica opzione, sostengono alcuni intellettuali antiliberali come Patrick Deneen e Adrian Vermeule, è rovesciare il sistema. Adesso. Quest’anno.
Ormai i pensatori che sostengono posizioni illiberali parlano apertamente di rovesciare il sistema o di minarlo dall’interno. Abbandonati da un Partito repubblicano che «non si preoccupa veramente di loro» e da un «establishment conservatore» che si è rassegnato «al progetto dei liberal che vogliono narcotizzare il popolo americano trasformando il Paese in una nazione di schiavi», quelli che si oppongono al liberalismo «sono costretti a tremare senza sosta sotto la scure», come scrive uno studioso conservatore. Se non si interverrà in modo drastico, sostengono, «la vittoria della tirannia progressista sarà assicurata. E arrivederci nel gulag» [i virgolettati sono tratti da articoli di Glenn Ellmers e Adrian Vermeule, ndr].
Per sostituirlo con che cosa?
L’obiettivo, insistono gli antiliberali, è la creazione di una società e di un sistema politico dediti al “bene comune”. Ciò a cui costoro alludono con queste parole è un Commonwealth cristiano: una «cultura che preservi e promuova l’ordine e la continuità e offra sostegno alla fede religiosa e alle istituzioni», attraverso una legislazione che «salvaguardi e incentivi la moralità pubblica, proibendo la volontaria corruzione», incoraggi un «esplicito e rinnovato riconoscimento delle radici cristiane della nostra civiltà», favorisca «occasioni pubbliche di preghiera» e dia impulso a una «rivitalizzazione dei nostri spazi pubblici che rifletta una più profonda consapevolezza del fatto che siamo chiamati a costruire delle imitazioni della bellezza che ci attende in un altro Regno» (questi virgolettati sono tratti dal libro Regime Change: Toward a Postliberal Future di Patrick J. Deneen, ndr).
Non si capisce, comunque, come questi nazionalisti cristiani potrebbero evitare un rinfocolare delle dispute dottrinali sul significato di “bene comune” (dispute a causa delle quali i cristiani si sono massacrati a vicenda per secoli) nel caso in cui raggiungessero i loro obiettivi e riuscissero quindi a sostituire la società liberale americana con un governo che indirizzi le persone verso il “bene comune”. Per non parlare di quello che succederebbe ai non cristiani in quel commonwealth cristiano auspicato dagli antiliberali.
Ma parliamo dei bianchi: almeno i protestanti bianchi sono d’accordo fra loro nell’indicare che cosa costituisca il “bene comune”? E vivranno quindi in perfetta armonia una volta che le persone non bianche saranno state rimesse al loro posto (o saranno state allontanate) e il governo sarà stato depurato dalla wokeness? La storia dell’Europa dovrebbe sgombrare il campo da simili fantasie. I bianchi, storicamente, non hanno avuto più successo dei cristiani nel tentativo di trovare un accordo fra loro su che cosa fosse il “bene comune”. E per gli americani è sempre stato motivo di orgoglio il fatto che popoli che in Europa si erano combattuti per secoli potessero convivere pacificamente negli Stati Uniti.
Ma questa possibile convivenza dipende dal fatto che l’America è una società liberale in cui tutti godono di uguali diritti. La storia , però, dimostra ampiamente come questa non sia la condizione normale degli esseri umani. È quindi utopistico immaginare che non ci sarebbe una riemersione di quelle antiche divisioni, una volta che venissero rimossi gli argini posti dalle istituzioni liberali.
Costoro sperano di usare la distruttività ribelle del movimento di Trump per rovesciare un’élite progressista contro la quale, da soli, si sono sempre sentiti impotenti, e sostituirla con un’altra élite, un’élite di «aristoi consapevoli di se stessi» – come scrive Deneen [autore anche dei precedenti virgolettati, ndr] – che sia capace di individuare «sia la malattia che affligge la nazione sia la medicina rivoluzionaria necessaria per curarla» e sappia trasformare i «risentimenti populisti in politiche di largo respiro».
In effetti, l’antiliberalismo ha trovato di nuovo casa in seno alla Corte Suprema. A metà del Diciannovesimo secolo, la Corte appoggiava il mantenimento della schiavitù, e non solo perché essa era protetta dalla Costituzione ma anche perché i giudici che ne facevano parte erano d’accordo con l’opinione della maggioranza secondo cui i neri non erano uguali ai bianchi. Poi, per quasi un secolo dopo la Ricostruzione (l’epoca seguita alla Guerra di secessione, ndr), la Corte avallò attivamente la segregazione ufficiale e le leggi Jim Crow.
Oggi una parte maggioritaria della Corte ha adottato un “originalismo” che è intrinsecamente antiliberale, perché cerca di erigere a modello di costituzionalità le tradizioni e le prassi del Diciottesimo secolo e non quei principi liberali che i Fondatori promulgarono pur essendo pienamente consapevoli del fatto che essi fossero in contrasto con le prassi e le tradizioni degli americani dell’epoca. E quindi, visto il suo orientamento sempre più antiliberale e vista la partigianeria che ha spesso dimostrato (la decisione faziosa cinque voti a quattro nella causa Bush versus Gore del 2000 ne fu un esempio lampante), la Corte Suprema potrebbe rivelarsi un sostegno troppo fragile a cui appigliarsi se e quando, alla fine di quest’anno, dovesse scatenarsi una crisi elettorale e costituzionale.
sintesi di Alessandro Bruni
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